La capitolazione di Pd e Italia Viva sul tema della prescrizione ha due evidenti significati. Il primo – che era già chiaro, per me, e per +Europa, al momento della fiducia al governo Conte II – è che le premesse del nuovo esecutivo avrebbero portato a queste conseguenze, cioè alla completa subordinazione del programma del nuovo esecutivo all’agenda populista del governo Conte I.
Non c’è nulla delle cose peggiori fatte dalla maggioranza giallo-verde che sia stato disfatto dalla maggioranza giallo-rossa. Né le misure imposte dalla Lega e da Salvini, come sulla cosiddetta “sicurezza” o sulle pensioni, né le misure imposte dal M5S e da Di Maio (e dalla vasta schiera di quelli che Massimo Bordin chiamava i suoi “gerarchi minori”), come sul reddito di cittadinanza e sulla giustizia. Per non parlare degli interventi richiesti all’unisono da leghisti e grillini, in particolare sul deficit spending e sulla guerra alle istituzioni e alle politiche europee, di cui troviamo abbondanti tracce nella discussione surreale sul Mes. Il Governo Conte II è una sorta di illusione ottica. È il governo Conte I con un soccorso rosso e con una compagine ministeriale mezza interna e mezza esterna alla sua mutata maggioranza parlamentare. È come se il ministro dell’Interno fosse sempre Salvini e il ministro dell’(anti)Europa Savona. Il ministro della Giustizia è invece ancora, anche ufficialmente, Bonafede.
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Il secondo significato della resa, ampiamente prevista, di Pd e Italia Viva sulla prescrizione ha un significato più specifico e perfino più inquietante. La cultura del diritto che oggi detta legge a via Arenula ha una evidente parentela con quella visione panpenalistica e “combattente” della giustizia, che ha avuto notevole diffusione in tutte le componenti della sinistra italiana e non solo. Una visione che presta alla giustizia penale un ruolo abusivo di sorveglianza generale della società e della politica, e ai processi e alle pene il compito di soddisfare le aspettative dei cittadini rispetto ai fenomeni di maggiore allarme, reale o percepito. Questa idea della giustizia è di molto precedente all’avvento dell’antipolitica e per molti versi l’ha culturalmente incubata. Il populismo penale è stato il precursore del populismo politico. Ciò spiega l’imbarazzo di Renzi e Zingaretti a portare con forza e determinazione la battaglia contro la non prescrivibilità della pretesa punitiva dello Stato, in un campo politico che ha imparato da molti suoi padri che i diritti individuali degli accusati non costituiscono essi stessi “sostanza di giustizia”, ma devono essere subordinati all’azione della magistratura inquirente e giudicante per l’interesse collettivo. La politica della giustizia negli ultimi decenni ha per lo più prodotto nuovi reati, aumenti di pena, restrizioni del diritto di difesa e dell’accesso ai benefici per i detenuti. Non esiste governo o compagine parlamentare che sia stata indenne dal contagio di questa vera e propria patologia democratica, che usa pene e processi come strumenti di consenso politico.
Da molti punti di vista anche la proposta di uno scambio tra una legge sui tempi certi del processo e il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, in un Paese come l’Italia, riflette una oggettiva subalternità culturale al principio della prevalenza dell’azione penale sui diritti dell’imputato. Se infatti, di fronte a leggi che sulla carta accelerano i processi, ma nei fatti non conseguono questo obiettivo, la prescrizione si blocca in ogni caso, allora è evidente che il prezzo dell’inefficienza della macchina della giustizia si scarica interamente sugli imputati. La qual cosa, oltre a traslare la sanzione dell’inefficienza sulla vittima dell’inefficienza, non costituisce affatto un incentivo all’accelerazione dei processi, che nei fatti potrebbero in ogni caso essere eterni. E si torna al punto di partenza, che è innanzitutto ideologico: la pretesa “eternità” del processo è l’altra faccia della medaglia della supposta onnipotenza della giustizia penale. Dal punto di vista pratico sappiamo tutti, compreso Bonafede, che per quante vittime mieta il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, in ogni caso il 70% delle prescrizioni matura prima del processo e la prescrizione già incide sul 10% delle sentenze di primo grado, che in ogni caso si concludono in un caso su quattro con l’assoluzione degli imputati.
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Peraltro i reati puniti con l’ergastolo sono imprescrittibili e lo sono pure di fatto quelli di terrorismo e di criminalità organizzata perché non opera alcun limite in ordine all’interruzione della prescrizione. Per i reati di sangue i termini di prescrizione sono nell’ordine non degli anni, ma dei decenni. I reati di corruzione, a seconda della gravità, si prescrivono tra i 15 e i 33 anni.
L’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio dunque non ha alcuna efficacia pratica, se non quella afflittiva nei confronti dei malcapitati per i quali il reato si sarebbe prescritto dopo il primo grado di giudizio, anche a seguito di una sentenza di non colpevolezza, e per i quali lo stare “sotto processo” ha già comunque occupato e avvelenato un buon pezzo di vita. Insomma, la norma voluta dal Ministro Bonafede non è una riforma, ma un trofeo, un emblema di vittoria contro quel principio di civiltà trascritto nell’art. 111 della nostra Costituzione. Di tutto questo parleremo oggi in un evento pubblico al Senato, insieme a Enrico Costa e ad altri parlamentari, con il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza. Sarà un estremo appello al Parlamento e al Governo, a pochi giorni dalla decorrenza della nuova misura ammazza-prescrizione. E un doveroso segno di solidarietà con la battaglia che in questi giorni vede impegnati i penalisti italiani.