Le presidenziali alle porte
Presidenziali Usa, America sempre più divisa: Trump può trionfare grazie a blacks moderati

Tutti i pronostici danno Trump perdente e Biden vincitore con largo margine. Ma tutti ricordano che la stessa sensazione si avvertiva anche nel 2016 quando invece – sorprendendo quasi tutti – l’odiatissimo tycoon zazzeruto vinse e strappò il trono sotto le terga della detestata Hillary Clinton. Oggi per tutti è diverso, ma nessuno è tranquillo, specialmente in campo democratico, perché ci sono due fattori che potrebbero determinare in rovesciamento di probabilità dell’ultimo momento, entrambe paradossali. La prima è il virus covid: Trump potrebbe vincere malgrado o a causa del covid, per quanto possa essere paradossale. La seconda è il voto degli afroamericani ai quali il presidente si è dedicato da mesi con una campagna molto semplice: io soltanto, dice, vi ho dato posti di lavoro portandovi in buona parte dai ghetti e ho fatto in modo che frange marginali potessero mandare una parte considerevole dei loro figli all’università.
La Owens ha lanciato lo slogan: «Noi non siano più gli emarginati, siamo padroni del nostri destino di cittadini americani di pieno diritto e non abbiamo bisogno della pelosa benevolenza dei democratici che ci vogliono sottomessi e iscritti alle loro liste elettorali». La rete televisiva Fox News di Rupert Murdoch che sostiene Trump h24 è sempre più gremita di intelligenze e bellezze nere: professori, donne che scrivono libri, anchorwomen, polemiste, lavoratori e rappresentanti della middle class nera che hanno costantemente deplorato le violenze seguite all’uccisione di Floyd sotto le insegne del movimento “Black lives matter” nel cui nome sono state compiute devastazioni che non hanno irritato soltanto la destra bianca, ma anche la classe media nera che fra l’altro fornisce la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine americane.
Uno sceriffo nero in pensione diceva ieri: «Noi neri siamo il 12,7 per cento della popolazione, ma siamo il quaranta per cento dei poliziotti di tutti i corpi di “law enforcement” e siamo proprio noi che dobbiamo vedercela nelle strade con una criminalità diffusa di tutti i colori di pelle e siamo stati trattati come dei nazisti collaboratori dei bianchi, questa storia deve finire». Nelle interviste televisive di campo democratico si sente spesso dire: «Chi sia Trump lo sappiamo, può piacere o non piacere, ma sappiamo bene chi è. Il problema è che non sappiamo nulla di Biden, perché non ha saputo costruire una forte personalità, un carisma come Obama. Inoltre, è vecchio e difficilmente potrebbe governare per i due termini di quattro più quattro anni cui aspirano i presidenti».
Questo argomento, che emerge con grande frequenza, implica la persona e la figura di Kamala Harris, la senatrice californiana di colore (ma non afroamericana) che ha soltanto 56 anni. Se Biden morisse nel corso della presidenza, diverrebbe automaticamente presidente e, se la cosa avvenisse nel corso del primo quadriennio, vincerebbe facilmente la rielezione coronando il sogno della prima donna la Casa Bianca. La Harris è stata come sempre osannata e venerata per il colore della sua pelle e perché è una donna, ma pochi sanno che è stata una giudice detestata proprio dai giovani afroamericani cui ha inflitto condanne pesantissime per possesso di marijuana. Kamala non è Michelle Obama perché – nella sinistra liberal – considerata una reazionaria che gioca sul privilegio del colore della pelle (un padre dell’India britannica e madre giamaicane) e molto “condiscending”, troppi sorrisi sprezzanti nei dibattiti pubblici.
Piace da pazzi in Europa, forse perché gli europei, come dice l’astro nascente della filosofia politica inglese Douglas Murray vivono soltanto di sensi di colpa e cedono su tutta la loro identità, come ha scritto in Lo strano suicidio dell’Europa. La candidatura scialba di Biden dunque sarebbe per molti la semplice copertura per il lancio del nuovo astro sponsorizzato dal potente e collaudato clan delle famiglie Clinton e Obama, il quale ultimo si è speso generosamente e disperatamente per sostenere il suo ex vice Biden, cosa che ha fatto sospettare molti analisti di una sostanziale fragilità del voto democratico, affidato ad un unico fattore propulsivo: l’odio per Trump, la voglia di cacciarlo una volta e per tutte, qualsiasi altra scelta non può che essere migliore. A sostegno di questo fattore sta il fatto che si sono registrati per il voto e stanno effettivamente votando già per posta molti più votanti della volta scorsa, forse addirittura il doppio.
Un dato però anche questo di difficile interpretazione perché anche il campo repubblicano si è compattato intorno al candidato presidente malgrado tutti i dissensi sulla politica usata per fronteggiare l’epidemia che sta flagellando gli Stati Uniti. E quanto al Covid, Trump è sotto sfacciato ed irritante con la mascherina che si è tolta e che gli ha procurato un Covid che poteva diventare gravissimo, ma dal quale è riemerso come un sommergibile carico di una energia imprevista. I democratici lo trattano come un untore, ma lui dichiara di aver salvato gli Stati Uniti dal lockdown all’europea, e di aver promosso con successi la nascita del vaccino che fra poco secondo lui risolverà il problema, cosa forse vera anche se i tempi saranno comunque più lunghi di quel che Trump sostiene. Nel frattempo, il suo sfidante Joe Biden sembra piuttosto inerte, scarso di battute, lento e più rassicurante che vincente.
Ce la farà lo stesso? I sondaggi dicono di sì, ma i fattori di rischio per lui aumentano con il rilancio sempre più visibile dell’economia, malgrado gli sbalzi di Wall Street. Nel terzo quadrimestre il Pil è cresciuto del 7,43 per cento, cosa impensabile in Europa, anche se l’America ha ancora molto da recuperare dopo le devastazioni della prima e della seconda ondata del virus. E poi tutti si chiedono se e quali risultati elettorali avrà l’impressionante iperattivismo di Trump che corre da uno Stato all’altro, facendo anche quattro comizi affollatissimi al giorno, mentre Joe Biden sembra rintanato e prudente, forse perché si sente ormai blindato dal vantaggio che gli garantiscono le agenzie di sondaggio, che però ieri scoprivano che in Florida i due candidati sono di nuovo in pareggio, dopo una fase di prevalenza democratica, che si è sgonfiata in pochi giorni.
Lo slogan di Biden è: cicatrizzare l’America e riunirla dopo la grande frattura. Ma non molto di più e la grande frattura del resto c’è e tende ad allargarsi. Netflix ha messo on line un bel documentario su Michelle Obama – Becoming – in cui l’ex First Lady ricorda con amarezza che al momento del voto durante le ultime elezioni “our people didn’t show up”: la nostra gente non si fece vedere ai seggi elettorali, sparita, con sua grande amarezza. Oggi la scommessa è reale e molto drammatica, drammatica come mai è stata prima nella storia della prima repubblica democratica del mondo. Il dramma sta nel fatto che ancora una volta questo paese unico e straordinario, controverso e che catalizza fortissime correnti di amore e odio, è in preda a una delle sue crisi di crescenza che sono sempre travolgenti e tragiche.
Secondo George Friedman, uno dei più competenti e imparziali analisti americani, gli Stati Uniti vivono oggi una delle loro periodiche rivoluzioni interne che ogni quarto di secolo o giù di lì, dalla rivoluzione anticoloniale alla guerra civile, alla fine della segregazione, la spaccatura sulla del Vietnam, il Watergate e oggi lo scontro fra l’America rurale dei blue collar e dei red necks (operai in tuta e agricoltori dal collo abbronzato) e l’America delle metropoli, da New York a Los Angeles, da San Francisco a Chicago. Sia il New York Times che la CNN, le due voci più autorevoli di Biden e dei democratici, ammettono che Trump è in risalita verticale e la domanda è: ancora in tempo per recuperare i nove punti e mezzi di vantaggio, se non più, accreditati al suo avversario? E poi: quando si avrà il verdetto dei voti? Stavolta i democratici hanno puntato tutto sul voto per posta, che è permesso soltanto in alcuni stati e che è cominciato già da settimane, prima che la campagna elettorale sia finita. Trump ha detto che questa strategia sa d’imbroglio e di manipolazione per farlo fuori nel caso in cui il margine di differenza si rivelasse molto stretto.
Dal campo opposto Hillary Clinton ha dato a Joe Biden il consiglio di non riconoscere in alcun caso la sconfitta, come vuole la consuetudine secondo cui chi perde lo ammette e telefona all’ex avversario per congratularsi. Stavolta è possibile che si arrivi al quattro mattino, e poi al cinque e al sei sette e ancora si stia in un pantano di conteggi e riconteggi. Trump si è impuntato perché soltanto il voto di persona al seggio fosse riconosciuto mentre i democratici lo hanno accusato anche per questo di non avere in alcuna considerazione la salute degli elettori che per andare a votare devono esporsi al contagio. Ma anche Joe Biden ha convenuto ieri sul fatto che votare di persona renderà le cose più facili e che ci si può proteggere con efficacia anche votando. Anche in America il covid ha creato la contrapposizione ideologica fra chi impone la mascherina e chi la rifiuta, comer più o meno accade in tutto il mondo.
Biden accusa Trump di pessima gestione del virus e il presidente risponde che il covid sta per essere sconfitto dalle vere armi che possono batterlo, che sono i vaccini imminenti e i farmaci che la Drug and Food Administration ha cominciato a omologare. La svolta più importante e più visibile nel disperato tentativo di rimonta di Trump è il corteggiamento del voto nero ricordando ogni giorno come Abraham Lincoln sia stato il primo presidente repubblicano, quello contro il quale i democratici di allora, concentrati al Sud, scatenarono la guerra di secessione per difendere lo schiavismo e poi la segregazione razziale.
Questo dell’opportunismo democratico nei confronti dei neri è diventato un argomento ideologico martellante specialmente della Candice Owens che ripete: «Noi neri siamo cittadini americani padroni del nostro destino, non siamo e non vogliamo più essere considerati vittime, ma protagonisti». È un tema che offre specialmente ai giovani neri di sostenere una linea di orgogliosa indipedenza, per la saturazione dello slogan che se sei di pelle scura devi votare democratico, considerato da molti sospetto di razzismo.
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