In un’importante intervista, resa al “Giornale” domenica scorsa, il ministro per la Giustizia in pectore del probabile governo di centro-destra ha meglio articolato i punti programmatici del gabinetto che si appresterebbe a dirigere. Carlo Nordio ha snocciolato i punti essenziali di un progetto di riforma avendo cura, più volte, di ricordare che intende puramente e semplicemente dar corso alla riforma del codice di procedura penale concepita dal ministro Vassalli nel lontano 1988. Non è soltanto un’evidente argomentazione retorica – volta a spuntare le ali a quanti paventano una modifica dell’assetto della magistratura penale a pura trazione berlusconiana – ma contiene in sé gli elementi di un dibattito che è rimasto per lungo tempo sottotraccia. Ossia se possa darsi, come dire, in natura un processo a matrice accusatoria senza una separazione netta delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
Lunedì sul Corriere della sera, Michele Ainis è intervenuto da par suo sul tema della riforma di stampo presidenzialistico – altro cavallo di battaglia elettorale dell’annunciato governo Meloni – ammonendo sui pericoli di una riforma dell’assetto costituzionale in presenza di altri poteri (Governi precari, Parlamento screditato e Magistratura ammaccata) fortemente indeboliti ed erosi nella loro legittimazione popolare e nel consenso sociale. La prospettiva delineata da Nordio e le preoccupazioni di Ainis vanno a braccetto e impongono di inquadrare il tema della separazione delle carriere nell’alveo di una – pare – probabile riforma della Carta fondamentale che dovrebbe essere nell’agenda della prossima legislatura. Il quesito è chiaro: si tratta di stabilire se si può isolare il pubblico ministero dall’assetto della giurisdizione senza dar luogo alla formazione di un ulteriore potere dello Stato che si affianchi a quello giudiziario (ossia giudicante) strettamente inteso. Un potere, si badi bene, che anche i più strenui sostenitori della separazione vogliono svincolato comunque da ogni legame con l’esecutivo o il legislativo e cui sarebbe rimessa una funzione enorme e delicata quale è quella della conduzione delle indagini, dell’esercizio dell’azione penale e della messa in fibrillazione della presunzione di innocenza.
Un potere che, a Costituzione invariata sul punto, avrebbe per giunta la diretta disponibilità di decine di migliaia di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria e sarebbe capace, quindi, di ergersi a referente esclusivo verso ogni altro potere dello Stato, verso le formazioni intermedie, verso ogni altra organizzazione. Con l’effetto di postergare l’intera giurisdizione, nelle sue varie articolazioni e sino alla Cassazione, a mero organo dello ius dicere privo di una più ampia proiezione istituzionale come accade per il Consiglio di Stato o la Corte di conti o ogni altra giurisdizione. Ecco che la prospettiva di una modifica in senso presidenzialista della Repubblica non può andare disgiunta dal problema della separazione delle carriere, poiché in presenza di una forte legittimazione del Quirinale o di Palazzo Chigi (nella traiettoria renziana del sindaco d’Italia) la collocazione costituzionale del potere inquirente e requirente non può essere banalmente risolta con la previsione di un apposito Csm, di distinte regole di carriere, di protocolli di nomina differenziati. La mera giustapposizione di un ordine giudicante e di un ordine inquirente potrebbe rivelarsi sommamente pericolosa e, soprattutto, non è detto sortisca gli effetti che i fautori della separazione ritengono a portata di mano.
Un giudice indebolito da carichi asfissianti di lavoro, da congegni processuali complessi, da regole di responsabilità accentuate potrebbe trovarsi “consegnato” nelle mani di un pubblico ministero agguerrito, performante, potente molto più di quanto accada oggi. Si avrebbe un super-avvocato dell’accusa e/o della polizia, con risorse praticamente illimitate che avrebbe quale unico e solo fine quello della vittoria processuale; obiettivo questo incompatibile – in linea teorica – con la limitazione del potere di impugnare le sentenze di assoluzione, a esempio. La parità delle parti avrebbe corollari, anche deontologici, che al momento neppure possono prevedersi e il tutto costruito entro un recinto ordinamentale composto per intero da pubblici ministeri che si (auto)promuovono, si (auto)giudicano, si (auto)valutano. E questo entro la cornice di un potere presidenziale anfibio, posto a capo del Csm dei giudici e di quello dei pubblici ministeri, con un ruolo della Procura generale della Cassazione che dovrebbe addirittura promuovere l’azione disciplinare contro i “propri” giudici. Almeno che non si voglia consegnare l’azione disciplinare alla sola conduzione politica del Ministro della giustizia. Insomma un pasticcio pericoloso e dagli effetti totalmente imprevedibili. Il rischio che una presidenza “forte” condizioni e orienti politicamente e ideologicamente questo neonato potere inquirente è molto concreto.
La prospettiva di una più ampia riforma costituzionale che prenda in esame, alla fine, l’intero assetto repubblicano complica e non agevola la prospettiva dei separatisti. Quel che risulta evidente è che l’allargamento delle prospettive di modifica costituzionale, il campo largo della Costituente proposta da Ainis, rende il tema della separazione delle carriere meramente periferico e del tutto consequenziale a scelte ben più radicali e impattanti sulla struttura democratica della nazione. Alla fine, se si scoperchia il vaso di Pandora della vetustà e della insufficienza della Carta del 1948, i problemi della giustizia assumeranno una scarsa evidenza e, paradossalmente, non è scontato che a uscirne sconfitta non sia proprio la prospettiva della separazione delle carriere, ossia di una moltiplicazione ingovernabile o troppo facilmente assoggettabile, della polarità giudiziaria.