«La situazione insostenibile causata dalla somma dei rincari di energia elettrica e gas e dei costi delle materie prime espone le imprese del comparto agroalimentare al rischio paralisi». La denuncia arriva da Giorgio Mercuri, presidente dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, e da Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare, l’associazione che riunisce gli industriali del settore del cibo. Insieme rappresentano il 90% della produzione alimentare del Paese. La settimana scorsa Mercuri e Vacondio hanno scritto al presidente del Consiglio Mario Draghi «affinché il Governo ponga in essere urgenti misure per arginare la situazione emergenziale e si faccia promotore di iniziative a livello europeo per l’adozione di provvedimenti che tutelino le imprese da speculazioni globali riconducibili anche a fattori di natura geopolitica».

Se la situazione non verrà affrontata, si legge nella missiva delle due associazioni, l’export dei prodotti agroalimentari subirà una brusca frenata «col rischio di compromettere in breve tempo gli importanti risultati conseguiti negli ultimi dieci anni dalle nostre produzioni sui mercati internazionali». Secondo Alleanza Cooperative Agroalimentari e Federalimentare, molte aziende «stanno valutando il blocco di alcune linee di attività e, nei casi di maggiore difficoltà, la chiusura degli impianti di trasformazione, col rischio di drammatiche conseguenze sociali e occupazionali». Il fenomeno può avere anche conseguenze gravi sul comparto agricolo: secondo Mercuri, infatti, «in alcuni casi sarà necessario intervenire nella stessa programmazione delle prossime campagne produttive, contenendo proprio quelle coltivazioni che necessitano di una lavorazione industriale. E ciò avrà conseguenze anche sull’impiego di manodopera in campagna». Aggiunge Vacondio: «se i prezzi dell’energia continuano a lievitare in questo modo, con aumenti che arrivano oggi al +200-300%, la chiusura per molte pmi diventerà inevitabile». Anche perché è impossibile immaginare nella grande distribuzione – cioè nei supermercati – una dinamica dei prezzi capace, allo stesso tempo, di compensare i maggiori costi sostenuti e di accontentare la ricerca di promozioni da parte dei consumatori.

L’urlo di dolore delle cooperative e delle industrie del mondo alimentare è soltanto un esempio delle difficoltà che vivono le imprese italiane. A spiegare meglio questa fase arriva anche un rapporto del Centro Studi di Confindustria che mette in fila gli aumenti dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali (iniziato dagli ultimi mesi del 2020) e l’impatto conseguente sulle industrie (meno, almeno per adesso, sui consumatori). Cresce, per esempio, il prezzo del petrolio che, dopo il crollo dovuto alla prima ondata della pandemia, recupera in pieno a dicembre con un +13 per cento rispetto alla fine del 2019. Si parla invece di rincari enormi per il rame (+57 per cento) come per il cotone (+58 per cento). Ma la botta più traumatica e violenta degli ultimi mesi del 2021 viene dall’impennata del gas naturale in Europa: +723 per cento di rincaro. Una impennata che, si legge nel rapporto di Confindustria, «si è rapidamente trasferita sul prezzo dell’energia elettrica in Italia, facendo lievitare i costi energetici delle imprese industriali: 37 miliardi previsti per il 2022, da 8 nel 2019. Un livello insostenibile per le imprese italiane, che minaccia chiusure di molte aziende in assenza di interventi efficaci».

Tra i principali paesi europei, il nostro è il più esposto al rincaro del gas naturale, per via dei limiti accumulati dal suo mix energetico. L’Italia dipende troppo dal gas, che copre il 42 per cento del consumo totale di energia in Italia nel 2020. Numeri molto diversi rispetto al Regno Unito (38 per cento), alla Germania che usa molto carbone (26 per cento), alla Spagna che si affida di più al petrolio (23 per cento), per non parlare della Francia che conta solo per il 17 per cento sul gas grazie alle sue centrali nucleari. Viceversa, l’investimento dell’Italia sulle rinnovabili in Italia (sole, vento, etc.), pari all’11 per cento del consumo energetico, è ancora insufficiente se paragonato a quello di Germania, UK e Spagna che sono leader mondiali. In più, l’Italia dipende dall’estero per il rifornimento da fonti fossili: l’89 per cento del petrolio utilizzato dal nostro paese è importato; lo stesso vale, a maggior ragione, per il gas (94) e per il carbone (100). Alto consumo e alta dipendenza dall’estero contribuiscono così all’esplosione della fattura energetica pagata ogni anno dal nostro paese.

Nel 2020 l’import netto di energia è stato pari a 23,4 miliardi di euro, di cui 14 per il petrolio e 8,9 per il gas naturale. Nel 2021 il balzo dei prezzi lo ha peggiorato in misura marcata. Ma petrolio e gas naturale contano molto sul bilancio delle famiglie italiane. L’energia pesa per l’8,3 per cento nel paniere dei consumi: elettricità e gas per l’abitazione arrivano al 4,5 per cento, i carburanti per i trasporti al 3,8 per cento. Il rialzo dell’inflazione nel corso del 2021 è dovuto proprio al balzo dei prezzi energetici (2,4 punti su 3,9 totali). Di conseguenza, la maggiore spesa per l’energia assorbe risorse che le famiglie avrebbero potuto investire su altri beni e servizi. E il rallentamento dei consumi non dà slancio sufficiente alla ripresa. Eppure, tutto sommato, l’inflazione dei prezzi al consumo, almeno per adesso, non è ancora esplosiva. Fatte salve le bollette, la percezione dell’aumento dei prezzi è ancora modesta da parte dei consumatori. L’impatto dei maggiori costi energetici si scarica, soprattutto, sulle imprese industriali.

Secondo Confindustria, i settori dove l’aumento dei costi dell’energia ha il peso maggiore sono la lavorazione di minerali non metalliferi (ovvero cemento, ceramica, etc., con un costo energetico pari all’8 per cento dei costi totali di produzione), la metallurgia (11), la chimica (14), la lavorazione della carta e del legno (5), la gomma-plastica (5). Per questi settori, precisa il Centro Studi di Confindustria «essendo difficile al momento scaricare a valle tutti gli aumenti dei prezzi, il caro-energia si traduce in forte erosione dei margini operativi. Nel lungo periodo, aumenta la spinta a perseguire una sempre maggiore efficienza energetica nella produzione». La Confindustria denuncia pertanto una evoluzione “drammatica” dello scenario energetico: per la manifattura italiana ciò significa «un fortissimo incremento di costi per la fornitura di energia, che passano dagli 8 miliardi circa nel 2019 a 21 nel 2021 e a 37 nel 2022. Si tratta di un incremento del costo complessivo del +368% nel 2021 e di oltre 5 volte rispetto ai costi sostenuti nel 2020».

Riepilogando: le imprese non hanno scaricato sui clienti i rincari dei costi di energia e materie prime, ma questo si è tradotto in una brusca compressione dei loro margini operativi. Il che spiega perché l’inflazione in Italia rimane più bassa che altrove. La sofferenza delle imprese emerge soprattutto nei settori che producono beni di consumo (per esempio, abbigliamento, agroalimentare, mezzi di trasporto), più vicini alla domanda finale ancora compressa. Ma anche nei settori energivori come cemento e ceramica, metallurgia, legno e carta. Il problema è che gli aumenti di costi sono alla lunga insostenibili in termini di competitività per le imprese italiane. Che cosa si può fare, dunque, per scongiurare il rischio concreto di perdere quote di mercato in modo irreversibile?

Nell’immediato, le industrie propongono una serie di azioni – congiunturali e strutturali – che richiedono un intervento diretto dello Stato. In primo luogo, l’aumento del livello di esenzione per i settori della manifattura (in particolare i comparti energivori a rischio delocalizzazione) tramite un intervento sulle componenti fiscali e parafiscali della bolletta elettrica e del gas naturale. In secondo luogo, il governo dovrebbe «aumentare la produzione nazionale di gas naturale e riequilibrare, sul piano geopolitico, la struttura di approvvigionamento del Paese»: un tema di grande emergenza se si pensa alle tensioni crescenti in Europa per via del conflitto Russia-Ucraina. Infine, Confindustria chiede una riforma del mercato elettrico, «al fine di disaccoppiare la valorizzazione della crescente produzione di energia rinnovabile dal costo di produzione termoelettrica a gas». Passata la pausa delle istituzioni per l’elezione del presidente della Repubblica, il governo dovrà rapidamente riprendere in mano un dossier che diventa sempre più scottante.

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