Si vota a Roma e Bologna, città simbolo
Primarie Pd, Letta rischia già l’avviso di sfratto
Per Enrico Letta le primarie di domenica a Bologna e Roma saranno la prima vera e pericolosa prova. A Bologna il test è doppio: se a votare saranno molti meno elettori dei 28mila di 10 anni fa, il segnale sarà pessimo. Se il candidato del Pd Lepore dovesse essere battuto dalla renziana Conti, appoggiata da una parte dell’establishment democratico, per il segretario sarà quasi un annuncio di imminente sfratto. A Roma Letta non corre di questi rischi. La vittoria del suo candidato, l’ex ministro Gualtieri, è certa. L’affluenza alle urne invece non lo è affatto e se i 40mila votanti di cinque anni fa restassero un miraggio, il viatico per le elezioni comunali d’ottobre sarebbe il peggiore possibile.
In fondo è giusto che il vero battesimo del fuoco, per un segretario del Pd, passi per le primarie. Perché, a conti fatti, proprio le primarie sono il vero e unico elemento identitario di quel partito, la componente stabile del suo dna, il marchio di fabbrica che ha sin qui resistito ai continui e convulsi cambi di linea e di leadership. Se le inventarono Romano Prodi e il suo eterno braccio destro Arturo Parisi nel 2004, con due anni di anticipo sule elezioni politiche. Sembravano un metodo ed erano il merito. Oltre la proposta di una partecipazione popolare alla scelta del leader e dei candidati, la formazione che Prodi, Parisi e anche Veltroni avevano in mente non è infatti mai arrivata. Le primarie erano un metodo, una suggestione ma anche, e forse soprattutto, un rito. Se ancora oggi appaiono come l’unico elemento che qualifica il Pd è proprio in forza della liturgia.
Un rituale collettivo destinato a cementare l’identità degli elettori, a farli sentire un popolo anche in mancanza di progetti precisi e programmi comuni. Solo in alcune occasioni hanno riservato sorprese e hanno inciso sulle scelte politiche ribaltando le previsioni. Successe proprio in una delle primissime prove, nel febbraio 2005, quando Nichi Vendola sconfisse il candidato di D’Alema, Francesco Boccia. Un risultato sorprendente, tanto più che la Puglia era allora considerata una specie di feudo dalemiano. Prima di quella prova c’era stata solo quella per la candidatura alla presidenza della Calabria, vinta senza sorprese da Agazio Loiero. Le primarie per la guida della coalizione, dunque le prime a livello nazionale, si svolsero il 16 ottobre 2005. Avevano una triplice funzione: incoronare Romano Prodi, sulla cui vittoria nessuna aveva dubbi, battezzare l’alleanza in vista delle elezioni politiche dell’anno precedente, e galvanizzare l’elettorato con una clamorosa prova di forza e di partecipazione di massa.
Andò tutto bene. Corsero tutti i futuri leader della più vasta e disomogenea coalizione possibile, l’Unione: Bertinotti, Mastella, Pecoraro, Di Pietro più varie ed eventuali. Risposero all’appello in moltissimi, oltre 4.300mila elettori. Sembrò un trionfo, ma lo fu davvero? Alle elezioni dell’anno successivo l’Unione vinse, sì, ma per soli 24mila voti, oltre tutto discutibili. Una coalizione così variegata e un vantaggio così esiguo erano una sentenza appena differita. Prodi cadde dopo appena 20 mesi di governo. Non prima, però, che Veltroni, ancora delfino di Prodi e fondatore del Pd, bissasse il successo nelle primarie per la segreteria del neonato partitone, il 14 ottobre 2007. Votarono oltre 3 milioni e mezzo di persone e se il record di Prodi era distante bisogna tener conto che qui si trattava di un partito solo. Certo potevano votare tutti, incluse gli elettori di destra, ed è uno dei limiti che non hanno permesso ai gazebo, in oltre 15 anni, di diventare una cosa davvero seria, come negli Usa.
Ma comunque , per un singolo partito, il risultato fu eclatante. Peccato che anche stavolta le urne, convocate per nuove elezioni politiche l’anno successivo, lo smentirono, assegnando una vittoria secca a Berlusconi. Così appena due anni dopo la base democratica fu riconvocata per eleggere un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Veltroni. Bersani, con rivali Franceschini e l’outsider Ignazio Marino fece il pieno anche se l’affluenza calò di 400mila unità circa. Pur sempre oltre 3 mln di elettori, comunque. Marino si riconsolò conquistando 4 anni dopo la candidatura vincente a Roma, con 100mila persone ai gazebo che per una città sola erano davvero tanti. In una sola occasione le primarie sono state, a livello nazionale, teatro di una vera battaglia, paragonabile al modello americano. Nel 2012, per la candidatura a premier della coalizione Italia Bene comune, il sindaco di Firenze Matteo Renzi sfidò Bersani e gli diede parecchio filo da torcere. Lo costrinse a un ballottaggio, poi però perse al secondo turno con il 39% dei voti contro il 61%.
Una dèbacle che costrinse Renzi a considerare seriamente l’idea di ritirarsi a vita privata. Lo salvò la maledizione delle primarie. Come da copione il vincitore nella coalizione non riuscì poi a vincere le elezioni politiche del 2013 (le pareggiò…) e fu sostituito a furor di gazebo proprio da Renzi, in una sfida quasi senza rivali, con in campo solo candidati di bandiera, Cuperlo per la sinistra e Civati. E’ stato l’ultimo ruggito. Di primarie ce ne sono state in seguito parecchie, ma quasi sempre senza pathos né suspence. Le hanno sfruttate i “populisti di sinistra” come De Luca nel 2015 ed Emiliano nel 2020, per imporsi con totale autonomia rispetto al Nazareno, ma non era certo questo l’obiettivo che aveva in mente Prodi quando si inventò un modello che ha le sue luci ma che, nel complesso, non ha funzionato. Come candidato sindaco di Roma, cinque anni fa, Giachetti vinse su una platea di 40mila votanti o poco più, meno della metà di quanti si erano affollati ai gazebo due anni prima.
Zingaretti, nel 2019, ha stravinto la prova per la guida del patito, ma con meno della metà degli elettori che avevano acclamato una decina d’anni prima Veltroni: un milione 582mila votanti. Il limite delle primarie sta nel non essere quasi mai andate davvero oltre la liturgia, la chiamata a raccolta della propria gente incapace però di esercitare alcuna attrazione al di fuori del proprio perimetro. Forse la maledizione che da anni le rende uno strumento che accompagna non la vittoria politica ma la sconfitta dipende proprio da questo: una dinamica identitaria può forse aiutare ma sola non basta. Spesso, anzi, condanna.
© Riproduzione riservata