L'intervento
Processi via web diventano privati, sono contro la Costituzione

L’emergenza sanitaria in atto e i conseguenti provvedimenti adottati dal Governo, volti a contenere l’epidemia da Covid-19, vedono messa in “quarantena” anche la Giustizia, a torto considerata meno “essenziale” rispetto alle attività di edicolanti e tabaccai. In uno Stato di diritto, tuttavia, la Giustizia non si può fermare: i diritti non possono essere “sospesi”. Per tale motivo, tra i vari attori della giurisdizione, si è aperto un dibattito, a tratti aspro, che vede coinvolti, da un lato, chi sollecita una digitalizzazione sempre più spinta e, dall’altro, chi, rischiando di apparire retrivo, pone l’accento sulle regole del contraddittorio e sulle garanzie delle parti coinvolte nel processo, che rischiano di rimanere irrimediabilmente compromesse da una necessitata quanto affrettata rivoluzione digitale.
Da una parte e dall’altra, tuttavia, il “processo” sembra essere considerato alla stregua di una “vicenda privata”, che riguarda esclusivamente le parti e i rispettivi difensori. Non è così, a ricordarcelo è l’art. 101 della Carta Costituzionale che, con un incipit breve quanto solenne, ammonisce tutti: «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Le letture date dai costituzionalisti a tale precetto sono assai diverse fra loro, tutte, però, convergenti nel ritenere che il grande significato democratico della norma si traduca nel dovere dei giudici di “rendere conto” del loro operato all’opinione pubblica. Ciò non contrasta con l’austera riservatezza e la lontananza dalla vita politica che devono caratterizzare l’azione del giudicante, anche al fine di garantirne l’autonomia e l’indipendenza: tra giudici, politica e società, deve mantenersi il giusto distacco.
In tale contesto, mirabilmente disegnato dalla nostra Costituzione, il “punto di contatto” tra il giudice e il popolo è garantito dalla pubblicazione delle sentenze, dal deposito delle motivazioni, nonché e soprattutto, dalla partecipazione del pubblico alle “udienze di discussione”, alle quali il “popolo sovrano” deve essere messo in condizione di poter partecipare, al fine di verificare come, in suo nome, viene amministrata la giustizia. In qualsiasi democrazia queste sono guarentigie fondamentali. Il potere giudiziario non può essere esercitato senza che se ne renda conto ai cittadini, i quali hanno il diritto-dovere di conoscere e accertare cosa abbia voluto dire il giudice. La pubblicità delle udienze di discussione e delle sentenze, il deposito della motivazione, dunque, assolvono a una funzione essenziale: garantiscono un percorso che “renda conto” di quanto è accaduto in quella determinata aula d’udienza. Solo cosi il dettato dell’art. 101 della Costituzione può assumere quel significato concreto che, a ben vedere, costituisce l’essenza stessa della democrazia.
Per nessun altro potere dello Stato la nostra Carta Costituzionale prevede un collegamento così immediato e diretto con il popolo sovrano, nemmeno per il Parlamento che è organo elettivo: le Leggi non sono emanate in nome del popolo, le pronunce dei giudici sì. Per i cittadini che ascoltano il giudice pronunziare una sentenza, l’articolo 101 della Costituzione ha un chiaro significato: quel giudice ha deciso in nostra presenza e in nome di tutti noi, di talchè quella sentenza andrà rispettata ed eseguita perché è espressione della volontà popolare. La partecipazione del pubblico al processo, dunque, consente un effettivo controllo dell’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia e crea, al contempo, quel filo rosso, simbiotico e indissolubile, che lega la Giustizia al Popolo.
Attraverso il processo, fatto di udienze aperte al pubblico (lo sono quelle di “discussione”), di sentenze e motivazioni pubbliche, i giudici comunicano con l’opinione pubblica rinforzando e rinnovando questo legame virtuoso che legittima l’amministrazione della giustizia. La Giustizia deve essere una casa di vetro: amministrarla al chiuso, in privato o, comunque, senza la partecipazione del pubblico, la allontanerebbe dai cittadini, svilendola e degradandola a mera amministrazione, fino a farle perdere, in definitiva, la possibilità di dar voce alla “sovranità popolare”.
Il “distanziamento sociale” imposto dal Covid–19 potrà “giustificare” il ricorso alle c.d. “udienze da remoto” e, “legittimare”, così, uno stravolgimento così profondo della Giustizia e della stessa Democrazia? Potrà amministrarsi la Giustizia da “remoto” senza che si spezzi definitivamente quel filo rosso che lega il giudice alla sovranità popolare?
Il Paese ha sicuramente bisogno di fare un salto in avanti, di spingere l’acceleratore sull’informatizzazione di ogni pubblica amministrazione e la Giustizia non può certo rimanere indietro. Non bisogna, tuttavia, lasciarsi prendere dall’emotività del momento, dettata dalla congiuntura sanitaria, né dalla fretta di tornare a una normalità soltanto apparente.
È necessario che il Legislatore acquisisca piena consapevolezza che una riforma organica del processo richiederà un percorso lungo e tortuoso, i cui tempi non potranno essere dettati dai picchi della pandemia. Sono in gioco conquiste democratiche, destinate a durare per sempre e che non possono essere vilipese da meri protocolli o da linee guida dettate dall’emergenza. C’è bisogno, in definitiva, che il Legislatore rifletta sui valori in gioco e sia prudente, perché è in discussione la democrazia. La Giustizia, amministrata in nome del popolo, non può celebrarsi in assenza del popolo: salvo ripensare il nostro modo di essere Stato e comunità.
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