La vicenda Eni, la rinuncia eclatante e anche plateale della Procura generale all’atto d’appello depositato dai pubblici ministeri di primo grado, costituisce una sorta di spartiacque e non solo per la giustizia meneghina, come dire, notoriamente sempre coesa, militante, compatta nei casi più urticanti e delicati. Si va sbriciolando l’asse che costituiva uno degli architravi su cui trova fondamento e forza il cosiddetto partito dei pubblici ministeri, la convinzione che, messa in acqua l’ipotesi accusatoria, questa sarebbe stata coltivata, sostenuta, sospinta in avanti da Alisei sempre favorevoli e comprensivi.
In fondo era il presupposto stesso di una sorta di ideologia del processo accusatorio italiano. Non importa che l’imputato sia assolto in primo grado, tanto lo si terrà inchiodato per anni sul banco dei reprobi, o presunti tali, con un appello e un ricorso per cassazione se serve, sino alla consunzione del tempo, sino allo sfregio definitivo dell’ingiuria incancellabile. La Procura generale di Milano ha rotto un patto non scritto tra le toghe dell’accusa: quello per cui non si lascia mai un collega “di partito” a braghe calate, in mezzo al guado, con il cerino in mano. Soprattutto quando il processo è mediaticamente denso, giornalisticamente succoso. Non conoscendo gli atti nulla di preciso si può dire, ma se il procuratore generale lombardo non avesse abiurato quell’intesa, se non si fosse sottratto a quella consegna e se avesse coltivato l’ipotesi di condanna fallita in primo grado, quel processo sarebbe andato avanti ancora alcuni anni con il pieno sostegno dei molti rami che costituiscono l’albero della pubblica accusa.
È indimenticabile il servizio realizzato il giorno prima del verdetto milanese da una delle più autorevoli reti televisive del paese e per mano di uno dei più prestigiosi giornalisti italiani, servizio che riassumeva in modo suggestivo le tesi dell’accusa e dava la corruzione come pienamente dimostrata. Un’azione di oggettivo quanto involontario fiancheggiamento, ma che ha messo a nudo – ad assoluzione arrivata – ancor di più fragilità, trasversalità, convergenze che ammorbano l’informazione giudiziaria italiana. Ecco perché la decisione milanese di cestinare l’appello e chiudere la partita non può essere solo ricondotta nell’alveo di una stantia discussione sul potere d’appello del pubblico ministero in caso di assoluzione; discussione che si trascina da un paio di decenni e che è ha già visto l’ennesima legge ad personam naufragare sotto i colpi della Corte costituzionale.
Ma esige uno scarto di visione politica più lungimirante e, se possibile, profetica. Il pubblico ministero, l’obbligatorietà dell’azione penale, la sua autonomia, i suoi connotati giurisdizionali sono un patrimonio che non si può disperdere. La discussione sulla separazione delle carriere risente di una visione ideologica, quindi poco pragmatica e realistica, dei problemi della magistratura italiana. Il primo nodo da sciogliere è quello di separare gli incapaci dai capaci, gli imbecilli dagli equilibrati, i mascalzoni dagli onesti, i neghittosi dai diligenti e non solo dentro le mura dell’accusa, ma in tutti i gangli delle toghe. La legge Cartabia introduce serrate valutazioni di professionalità, criteri partecipati e stringenti di controllo delle capacità dei magistrati.
Non sarà un’ottima legge – a esempio non circoscrive come avrebbe dovuto fare in modo più incisivo la discrezionalità del Csm – ma è una grande, ultima opportunità per il significativo miglioramento della qualità dell’organizzazione giudiziaria e delle sue sentenze. Qualcuno, improvvidamente, con denominazioni colorite a uso mediatico, ha detto che si tratta di dare le pagelle alle toghe. Non è così ovviamente, anche se qualche tentazione moraleggiante e didascalica affiora qui e là.
La vicenda Eni è la dimostrazione migliore di come quel nuovo sistema possa funzionare in futuro, non lasciando cadere nel nulla il gesto della Procura generale milanese. Non è vero che uno vale uno e una tesi vale un’altra e che, alla fine, non si può stabilire chi ha torto o ragione, affondando le mani nella bacinella pilatesca. Ha ragione chi ha il diritto e il dovere di parlare per ultimo, gli altri devono fare i conti con il torto.