Il processo Eni-Nigeria si chiude senza passare in Appello. I giudici di Milano questa mattina hanno preso atto della rinuncia da parte della Procura generale dei motivi d’appello nel processo di secondo grado nei confronti dell’ex e dell’attuale management della società petrolifera, in particolare l’AD Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.
A comunicarlo in aula all’apertura dell’udienza è stato il sostituto pg di Milano Celestina Gravina, rendendo così definitiva l’assoluzione con formula piena in primo grado nei confronti dei 15 imputati tra dirigenti di Eni, dirigenti di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere.
Gli indagati erano accusati di corruzione internazionale per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due società petrolifere per aggiudicarsi la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245.
Una scelta che conferma il flop colossale del processo portato avanti dai magistrati che a vario titolo hanno portato avanti l’inchiesta, in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ora pm alla Procura europea antifrodi, paradossalmente indagati per “rifiuto d’atto d’ufficio”, ovvero per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo.
Un processo senza prove, quello imbastito dai magistrati milanesi, come sottolinea la stessa sostituto pg Gravina in aula. Proprio la “mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa” per poter portare avanti un ricorso che non ha la forza “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio“.
Processo che “deve finire oggi perché non ha fondamento”, ha aggiunto ancora Gravina. Per il rappresentante dell’accusa bisogna rispettare i “binari della legalità” tracciati dalla Cassazione e quindi non bisogna sottoporre le persone ai processi quando “mancano le prove“. Gravina che con parole durissime ha descritto e criticato i motivi di appello presentati dall’aggiunto Fabio De Pasquale: “In questo processo – ha spiegato il sostituto pg- non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive“. Un atteggiamento “neocolonialista“, secondo il pg, lo ha avuto “il pm”, ossia De Pasquale, perché come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto” ha “imposto” la propria linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti“. De Pasquale che ha portato solo “chiacchiere e opinioni generiche che toccano i governanti degli ultimi 10 anni in Nigeria” nel processo.
Gravina poi si toglie ancora qualche ‘sassolino dalla scarpa’ nei confronti di De Pasquale: “Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. Come se non ci fosse un’associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio”. Gli imputati, che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno invece “il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”.
Eni-Nigeria è diventa così da inchiesta ‘principe’ della Procura di Milano una sorta di Caporetto della giustizia italiana. Basti pensare le ripercussioni per i due titolari dell’inchiesta, De Pasquale e Spadaro, che lo scorso giugno si sono visti chiedere dai colleghi di Brescia il rinvio a giudizio.
I pm bresciani contestano ai due di non aver depositato nel dibattimento sull’ipotizzata (e non provata) corruzione, chat del cellulare dell’ex dirigente Vincenzo Armanna (accusatore Eni) nelle quali si parlava di 50mila dollari che l’ex manager avrebbe chiesto indietro ad Isaak Eke, 007 nigeriano, teste nel dibattimento che avrebbe dovuto confermare le accuse. Armanna consegnò ai giudici solo parte di quei messaggi, mentre il pm di Milano Paolo Storari aveva scovato gli altri nelle sue indagini e le aveva girate ai vertici della Procura, guidata all’epoca da Francesco Greco.
In più, tra le accuse mosse ai pm milanesi anche il non aver introdotto nel processo presunte false chat, ancora una volta scoperte da Storari, che Armanna avrebbe creato per dare conto di suoi colloqui (falsi) con Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata.