«Quella prevista dall’art. 11 c.p.p. è una normativa di grande rigore, che risponde ad un principio architrave di tutta la giustizia, secondo cui il giudice deve essere in una posizione neutrale e distaccata rispetto a tutte le parti».

È tranchant il pensiero di Ennio Amodio, avvocato e professore emerito di procedura penale, uno dei padri del Codice del 1988, quando lo si interpella sulla vicenda Ilva.

«L’art. 11 riprende un’analoga disposizione del codice previgente: è da escludere che possa giudicare un magistrato che, anche solo potenzialmente, possa apparire condizionato e dunque non garante della massima imparzialità. Sicché laddove esistono precorsi legami o attuali appartenenze allo stesso circondario del giudicante, scatta la presunzione di lesione del principio di imparzialità, col rinvio del processo ad un’altra sede».

Una delle critiche che viene mossa all’art. 11 è che il meccanismo lì previsto determinerebbe la sottrazione al cosiddetto giudice naturale precostituito per legge. La giurisprudenza in argomento (così come quella sulla rimessione) è particolarmente “rigorosa” sul concetto di giudice naturale, mentre appare incline a ridimensionare quel concetto quando si pongono questioni di semplice incompetenza territoriale.

«Facciamo chiarezza: la precostituzione del giudice dà robustezza al principio della competenza territoriale, ma la naturalità ne costituisce un limite, una deroga che ha la stessa dignità, perché se quello precostituito è un giudice in qualche misura inidoneo a garantire l’imparzialità, per ragioni che derivano da situazioni locali o altre interferenze, ecco che la precostituzione cede il passo al principio della naturalità. Il congegno disegnato con l’art. 11 fa in modo di trovare un’altra sede: quella originaria, infatti, pur essendo precostituita, è inidonea a causa di una condizione dei giudici non coincidente con l’imparzialità voluta dalla Costituzione».

Abbiamo detto che anche il Codice previgente si preoccupava di apprestare tutela all’imparzialità. Non ti sembra che l’art. 11 del Codice del 1988, collegato alla riscrittura dell’art. 111 della Costituzione, ci consegni una garanzia rafforzata?

«Voi sottolineate una sfumatura di maggior rigore nella disposizione del 1988. Certamente, rispetto al Codice previgente c’è un passo avanti, anche perché si è voluto incarnare il principio dell’art. 25 Cost. e quindi dare piena valenza costituzionale all’art. 11 c.p.p.. Nel momento in cui il giudice precostituito per varie ragioni (ambientali, di posizione, per vicinanza alle parti, ecc.) non garantisce la sua neutralità scatta una procedura che tende a sopprimere il rigore della precostituzione».

Tema che si lega immediatamente a questo, è la remissione per ragioni di ordine pubblico o legittimo sospetto. L’istituto, vigente il Codice del 1930, si era prestato a discutibili decisioni che avevano determinato il trasferimento di processi dalla loro sede naturale ad altre sospettate di essere più condiscendenti con gli imputati… Ecco, mutato il quadro storico politico, nonostante il Codice Vassalli preveda ancora il trasferimento dei procedimenti per ragioni di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giurisprudenza di cassazione ha fatto tabula rasa determinando una sorta di abrogazione implicita dell’istituto.

«Condivido l’analisi. Potremmo dire che dagli abusi di prima si è passati ad una visuale estremamente restrittiva, che ha svuotato di contenuto la norma. Penso ad esempio alle decisioni sulle istanze determinate dalle campagne di stampa. Una campagna stampa molto negativa nei confronti di un imputato può dar luogo a un condizionamento dei giudici, non negato in linea astratta dalla Cassazione. Sappiamo, però, quella che è stata la poco persuasiva risposta della Corte: le campagne mediatiche hanno dimensioni nazionali, così che l’inquinamento lamentato potrebbe essersi verificato anche in altre sedi».

Quanto dici evoca il caso di Avetrana. Invocato lo spostamento di sede del processo, la Cassazione lo negò alzando bandiera bianca e arrendendosi di fronte alla notorietà nazionale della vicenda. Il processo misto penale mediatico si inghiotte i principi.

«Non posso che concordare, essendomi occupato tempo fa del tema nel mio volume sull’estetica della giustizia penale. È una questione di costume: mentre in altri sistemi c’è una maggiore attitudine a contenere l’invasione giornalistica nel campo giudiziario, checché se ne dica in Italia la stampa gode di ben maggiore libertà ed è spesso stata utilizzata come cassa di risonanza delle iniziative delle Procure».

Parlare di imparzialità implica la necessità di trattare anche il tema della ricusazione. È così scandalosa la previsione di questo istituto?

«Nient’affatto. La ricusazione è prevista in quasi tutti i sistemi e fa riferimento al fatto che ci può essere una degenerazione comportamentale nella posizione del magistrato. La definirei una violazione dell’imparzialità operativa. Per esempio, quando il giudice interviene con le sue domande, interrompendo quelle delle parti e mostrando un atteggiamento fortemente colpevolista. Nelle nostre aule si è fatto un uso abbastanza parsimonioso della ricusazione; si è trattato comunque di questioni delicate, che meritavano un vaglio da parte del giudice superiore. Penso che non vi sia stato un abuso dell’istituto. La ricusazione è atto che, come forma estrema di difesa, appartiene alla naturalità del sistema processuale: laddove il magistrato non provveda direttamente astenendosi, ci deve essere la possibilità di ricusarlo. Ricordate la vicenda del bastone e la carota?

Una vicenda davvero incredibile, al punto che la ricordiamo proprio in questo numero. Purtroppo, il rimedio esiste soltanto sulla carta, visti i cavalli di Frisia che la giurisprudenza ha costruito per l’accesso al giudizio, rendendo la decisione sul “merito” una chimera.

Eriberto Rosso Lorenzo Zilletti

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