Verso la sentenza d'appello per l'ex governatore
Processo Lombardo, in Tribunale c’è un grande assente: la prova
C’erano una volta le categorie oggettive, newtoniane di “spazio” e “tempo”: se l’orologio batte le tre, non è possibile dire che siano le ore sei. Poi è arrivata la relatività di Einstein e la meccanica quantistica ci ha insegnato che il “campo di osservazione” risente inevitabilmente del punto di vista dell’osservatore. È stata la fine di ogni sicurezza anche in campo processuale: come si fa, con una scoperta simile, ad avere un giudice terzo e imparziale se chi giudica è parte del teatro, se gli arbitri non esistono, se la realtà è una proiezione della nostra mente, se noi stessi creiamo un campo di osservazione? Che fare se la terra ruota pure intorno al sole, se il giudice non può tolemaicamente imporre più un modello, una verità rivelata, una inquisizione? Come fa un giudice a non restare schiacciato dalla meccanica dei quanti? La soluzione è stata lo Stato di Diritto.
Ci si è inventati il principio di legalità, le fattispecie tassative e determinate, la colpevolezza solo oltre ogni ragionevole dubbio, la prova, il fatto di reato. Solo, entro queste colonne d’Ercole oggettive, entro il diritto e non oltre il diritto, il potere giurisdizionale ha una legittimazione. Se si spinge oltre il fatto, se nega la prova, se è sciolto da questi vincoli, diventa illegittimo, non è più potere. Raffaele Lombardo per esempio ha i baffi. Per l’accusa, che ha chiesto per lui 7 anni di carcere, non saranno probabilmente quelli saggi di Hemingway de Il vecchio e il mare, ma al massimo quelli da “corvo”, gotici, di Edgar Allan Poe, o peggio ancora quelli del padrino catanese: Nitto Santapaola. È così perché ogni pubblico ministero crea, in perfetta buona fede, “un campo di osservazione”.
L’ex presidente della Regione Sicilia dicono che ami la caccia, abbia una collezione di fucili, baci poco forse perché sa che Giuda non era proprio un sentimentale. Dicono alcuni che sia algido, finanche anaffettivo, altri che sia generoso e appassionato. Per alcuni, ha fatto politica per cambiare le cose, per altri è stato solo un potente satrapo. Chi ci dice che l’accusa, parte di un processo, non sia condizionata dal punto di vista sull’uomo? Ciascuno di noi è condizionato dal proprio “campo di osservazione”. Quid est veritas? L’unico argine a questa relatività dilaniante è che l’accertamento penale, dopo le scoperte della fisica quantistica, non si occupi dell’uomo ma del fatto.
Le scoperte di Heisenberg sono pure la fine della dottrina unicista delle dichiarazioni dei pentiti come prova. Perché la mente crea, ha una forza performatrice del reale. Il summit di Barrafranca, del quale parla il pentito Caruana, privo di uno straccio di riscontro, non potrebbe forse essere una creazione della mente di quest’ultimo? Non potrebbe essere una proiezione celebrale il racconto di Squillaci che, sottoposto a isolamento diurno, affacciandosi dal carcere di Opera ove era recluso, dialoga amabilmente con il boss La Rocca preoccupato per Lombardo? Non potrebbe essere un costrutto mentale la rivelazione del boss Di Dio che si sarebbe raccomandato senza fortuna a Lombardo per un debito? Essere una “inventio” la vana preghiera di Mirabile per la licenza di una pizzeria, un “campo di osservazione” personale l’affidamento di D’Aquino per una promozione in una cooperativa sociale? E Maurizio Avola fresco di intervista su La7 al cospetto di Enrico Mentana che si proclama l’ultimo che ha guardato negli occhi Paolo Borsellino prima della strage, smentito dai pm di Caltanissetta che giurano che quel giorno trovavasi a Catania con un braccio ingessato?
Quid est veritas? Se la nostra vita fosse un grande fratello di Orwell, la verità sarebbe presto detta: basterebbe rivedere le registrazioni delle telecamere nascoste. Giacché questo non è percorribile, conta il fatto, contano i fatti di reato. Il calvario giudiziario di Raffaele Lombardo ha inizio nel 2006 proprio con Avola. Mai in oltre dieci anni si è rintracciato un favore concreto alla mafia in un appalto, una concessione suffragata da prova, mai un voto di mafiosi a Lombardo. E che significa? È in fondo un processo nel segno della fisica quantistica, di un campo di osservazione forgiato, plasmato, dalla mente dei pubblici ministeri e dei pentiti. Oltre dieci anni di archiviazioni, imputazioni coatte, assoluzioni, una condanna. Sino a un precedente su cui riflettere drammaticamente: la Procura di Catania impugnò in Cassazione, oltre i termini perentori, l’assoluzione dell’imputato avvenuta in appello, ma quell’impugnativa venne ritenuta ammissibile. Immaginate se, a parti inverse, fosse capitato a un povero avvocato di provincia: nel processo italiano, come nella fattoria degli animali di Orwell, ci sono “animali più uguali di altri”: i pubblici ministeri, i detentori del “campo di osservazione” che può diventare ius vitae ac necis: diritto di vita e di morte sulle persone. Eppure il rispetto di un termine perentorio è oggettivo, newtoniano.
Se fosse stato rispettato quel termine, Lombardo sarebbe fuori dal processo già da qualche anno, ma Lombardo evidentemente, come tipo d’autore non come autore di reato, è un cattivo: va inquisito fino a condanna definitiva. Non tiene neanche conto quel “campo di osservazione” della lezione del Pinocchio di Collodi contro il manicheismo che si impara sui banchi di scuola. Ma di questo laicamente non si può far colpa a un pubblico ministero. Parla mangiafuoco, l’omone cattivo: «Bada Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono, e ricordati che c’è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo…». Alla fine di questa storia, all’imbrunire dell’appello bis, in sede di dichiarazioni spontanee, il cattivo Lombardo (reso così dal “campo di osservazione”) ha preso la parola per due ore. Ha raccontato la sua vita, le sue amicizie, ha autoprocessato la sua intimità: «Ho candidato in quel calatino, considerato la terra del boss La Rocca, come sindaco l’ex procuratore generale Giacomo Scalzo, ho bloccato l’affare dei termovalorizzatori, ho fermato l’eolico ho fatto solo danni alla mafia». Ha chiesto alla corte di essere giudicato come uomo, non come caso politico. È la richiesta di un giudizio umano, troppo umano, in cui c’è tutto il dramma degenerante del processo italiano che diventa “il processo dei quanti”.
In un processo classico, non da stato etico ma da Stato di Diritto, nel tribunale entra il reato, l’uomo resta fuori. Mentre, nell’esecuzione della pena secondo Costituzione, nel carcere entra l’uomo, il reato resta fuori. In Italia vige ormai un capovolgimento del Diritto e della Costituzione: la fattispecie di reato resta fuori, nel tribunale entra l’uomo, il tipo d’autore; mentre in carcere non entra l’uomo ma il reato a cui rimani crocifisso per sempre. L’imputato, avvolto in un’atmosfera in cui il diritto del fatto è stato dato in pasto ai capponi di Renzo, ha assunto forse consapevolezza che non si giudicheranno i fatti, perché i fatti non esistono: se giustizia ci sarà, si farà giustizia sulla storia dell’uomo. Lo sanno tutti ormai che il fatto penale è stato sostituito dal personale campo di osservazione dei pubblici ministeri, tanto da far dire al presidente Giovanni Maria Flick: «Da tangentopoli, la magistratura ha ritenuto di dovere perseguire anche i costumi. Non si giudica il fatto ma si guarda all’uomo: il corruttore, l’associato a delinquere, ossia il tipo di persona espressa da quel fatto.»
E allora che ci sta a fare in quel processo d’appello la difesa, che ci stanno a fare Maria Licata e Vincenzo Maiello, avvocati di Raffaele Lombardo? Cui prodest aver dimostrato che non c’è alcuna intercettazione telefonica, ambientale, alcun favore alla mafia? Manca il fatto di reato, non esiste la prova? Conta il “campo di osservazione” costruito dall’accusa e il nuovo processo nostrano diventa un processo all’intimità. È finanche una seduta di psicoanalisi: un accertamento dei processi mentali, del temperamento, di “io”, “super-io”, “es”. Lombardo ridotto a Zeno Cosini, un paziente che si è sottratto alla cura antimafia che viene rigorosamente prescritta in Sicilia. Non avrebbe dovuto frequentare il popolo, gli umili, la fiera di Catania, ove può capitare magari di esser ripresi per caso con tizio parente di un mafioso. La mafiosità si contagia, ammorba chiunque, ha un indice RT che ricorda solo la peste nera di Atene. La mafia non è più un’organizzazione: è una cifra incorporea, una categoria dello spirito.
Lombardo sarà condannato perché ha preso il morbo secondo i PM e va accompagnato dai monatti nel lazzaretto? Nel 600, i monatti, che trasportavano i malati dietro compenso, in tempo pestilenziale, erano persone condannate a morte o carcerate. In questa storia siciliana, i monatti sono tutti pentiti che hanno accettato l’appalto: è la “vendetta dei quanti”. D’altronde con l’energia nucleare, creata dalla quantistica, puoi far evolvere la civiltà o lasciare macerie: nel processo penale, il suo utilizzo può creare desertificazione. Quid est veritas? Pilato interrompe il dialogo: solo il potere decide che cosa si debba o non si debba essere (non fare). In Italia, il potere è quello giudiziario che, in nome dei “quanti”, crea il campo della condanna. Eppure, proprio a Catania, quando un magistrato ritenuto pazzo, Giambattista Scidà, denunciò, con il “caso Catania”, le impurità della magistratura catanese, i magistrati, divenuti improvvisamente imputati, chiesero di esser giudicati e archiviati in modo newtoniano, secondo i fatti, in nome dello Stato di Diritto. È la doppia morale: anche in questo, “ci sono animali più uguali degli altri”.
Quello di Lombardo sembra in fondo un film di Dino Risi: “In nome del popolo italiano”. Il giudice Bonifazi inquisisce Santenocito, un imprenditore, per l’omicidio di una donna. Per il “campo di osservazione” di Bonifazi, Santenocito è un assassino, ma il togato viene casualmente in possesso di un diario redatto dalla giovane defunta che scagiona l’accusato. Che fare per il giudice: ignorarne il contenuto o dire giustizia in ossequio alla sua funzione? In quegli istanti la nazionale italiana vince un’importante partita contro l’Inghilterra e masse di tifosi si riversano nelle strade urlando. Bonifazi rimane vittima del “campo di osservazione” e vede idealmente i peggiori vizi dell’italiano cialtrone in Santenocito. È disgustato e decide di distruggere tra le fiamme il diario della ragazza, facendo condannare un innocente.
La fisica quantistica è la scoperta più bella di sempre: basta un pensiero per creare le cose, per modificare il reale. Senza ciò, senza una mente creatrice, saremmo ancora al sistema schiavista, alla pena di morte. Se entra, però, nel processo penale nostrano, diventa una mascariata. Perché la mente può mascherare la realtà e, in nome del popolo italiano, distruggere un diario che scagiona, far strage di innocenti, mettere a morte l’innocenza dei Raffaele Lombardo gridata dai fatti. Oggi è ancora il tempo di Newton? Allora, che lo sia anche nel diritto penale. Almeno fino a quando, con Gustav Radbruch e Aldo Moro, non verrà il tempo “non di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”.
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