Sono stati tutti condannati dal Tribunale di Perugia gli imputati nel processo relativo all’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva.
La sentenza è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri dopo circa nove ore di camera di consiglio. Presenti in aula tutti e sette gli imputati, sei dei quali condannati per sequestro di persona. Le condanne sono più alte rispetto alle richieste fatte dal pubblico ministero Massimo Casucci: inflitti cinque anni di reclusione sia all’ex capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, ora questore di Palermo, sia a Maurizio Improta, all’epoca capo dell’ufficio immigrazione della questura capitolina e ora al vertice della Polizia Ferroviaria. Lo scorso 23 settembre il pm aveva chiesto due anni e quattro mesi per il primo e due anni e due mesi per il secondo. Il Tribunale, presieduto da Giuseppe Narducci, ha condannato inoltre l’allora giudice di pace Stefania Lavore a due anni e mezzo di reclusione, i funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia a cinque anni, e quelli dell’Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, rispettivamente a quattro anni e tre anni e sei mesi di reclusione.

Per Armeni, Cortese, Improta e Stampacchia è stata disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Armeni, Cortese, Improta, Leoni, Stampacchia, Tramma sono stati riconosciuti responsabili di sequestro di persona commesso da un pubblico ufficiale nei confronti di Alma Shalabayeva, e della loro figlia Alua. Assolta per questo reato invece il giudice Lavore. Nel processo, oltre al sequestro di persona, erano contestati diversi episodi di falso e abuso. Gli imputati hanno sempre sostenuto la correttezza del loro operato. In fase preliminare erano stati prosciolti l’assistente di Improta, la poliziotta Laura Scipioni, «perché il fatto non costituisce reato» e anche i tre funzionari dell’ambasciata del Kazakistan per i quali è stata riconosciuta l’immunità diplomatica. L’avvocato di parte civile, il professor Astolfo Di Amato, ha commentato la decisione di ieri: «Una sentenza di condanna non può essere una soddisfazione. Invito però a ragionare su un fatto: gli imputati non avevano alcun interesse a fare quello che il processo ha dimostrato hanno fatto. Evidentemente hanno obbedito a degli ordini, ma chi quegli ordini ha dato l’ha fatta franca».

I fatti. Tutto iniziò la notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando Alma Shalabayeva e la figlia furono prelevate dalla polizia in una abitazione di Casalpalocco; erano ospiti di Bolat Seriyalev e di sua moglie, sorella della Shalabayeva, dopo aver abbandonato il Regno Unito. Le forze dell’ordine cercavano il marito, il dissidente kazako Muktar Ablyazov – perseguitato nel suo paese per motivi politici – ma alla donna venne contestata l’accusa di possesso di un passaporto falso. La mattina del 29 maggio il prefetto di Roma, ricevuti gli atti dalla questura, decretò l’espulsione della cittadina extracomunitaria Alma Ayan, poiché entrata in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera e quindi illegalmente soggiornante. A seguito del decreto prefettizio, la Shalabayeva e la figlia, dopo un passaggio intermedio presso l’ufficio immigrazione della Questura, furono trasferite al Cie di Ponte Galeria.

Il 31 maggio il giudice di pace di Roma, Avv. Stefania Lavore, convalidò il trattenimento della Shalabayeva presso il Cie. Lo stesso giorno la Shalabayeva e la figlia vennero accompagnate all’aeroporto di Ciampino da personale dell’ufficio immigrazione della Questura, imbarcate su un velivolo noleggiato dalle autorità kazake e trasferite ad Astana, capitale del Kazakistan. Il 18 luglio 2013 l’Alto Commissariato dei diritti umani dell’ONU (UNHR) emise un comunicato ufficiale, stilato da tre suoi esperti, in cui espresse un giudizio di irregolarità sulla procedura di espulsione seguita per Alma Shalabayeva e la figlia e invitò l’Italia e il Kazakistan ad assicurare un rapido ritorno delle interessate nel nostro Paese. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva nell’aprile 2014 è stato riconosciuto l’asilo politico.