Non è stata certo una rivolta dei peones quella che nei giorni scorsi ha visto i sostituti procuratori di Milano contrapporsi in massa al loro capo Francesco Greco e contestare il piano triennale di riorganizzazione dell’ufficio. Si chiedeva loro una cosa semplice: fatevi autorizzare da un aggiunto, cioè da un superiore gerarchico, prima di assumere provvedimenti importanti. La protesta nasce da storie antiche e di puro potere. Il triangolo delle bermude è composto dal Consiglio superiore della magistratura che vuole il controllo totale sui procuratori, i capi degli uffici che mal tollerano l’eccessiva autonomia dei loro sostituti e questi ultimi, spesso ringalluzziti dalla pubblicità ottenuta tramite il circo mediatico, che cercano di giocare in proprio, spalleggiati dal Csm.
Il procuratore capo della repubblica di Milano ha semplicemente cercato di mettere ordine in quegli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia da troppi anni popolato da troppi galli nel pollaio. Pur se sono passati i tempi in cui in quel corridoio Tonino Di Pietro egli altri del pool incedevano seguiti da un codazzo di giornalisti e ammiratori, la procura della repubblica di Milano è pur sempre considerata, come la recente vicenda dell’Ilva insegna, un punto di riferimento autorevole e ben organizzato. Per questo Francesco Greco non si aspettava certo la ribellione dell’intero ufficio (con l’esclusione degli otto aggiunti) al piano triennale richiesto a tutte le procure dall’ultima direttiva del Csm. Non se lo aspettava, ma forse avrebbe dovuto. Prima di tutto perché sa bene che il Consiglio morde il freno fin dai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e di quella legge del 2006 voluta dal ministro Castelli che, concentrando tutto il potere investigativo ma anche programmatico e organizzativo nelle mani del procuratore capo, prendeva due piccioni con una fava, riconducendo al normale rapporto gerarchico i sostituti e togliendo al Csm il potere di mettere il naso all’interno degli uffici.
Secondariamente perché un anno dopo, nel 2007, l’organo di autogoverno con una delibera ha di fatto abrogato le insidie della legge, riaffermando la propria competenza, in quanto “vertice organizzativo della magistratura”, a decidere l’organizzazione interna dei singoli uffici. Fino a sottoporre l’attività di coordinamento dei procuratori capo a un giudizio che può arrivare a influenzarne il fascicolo personale e la stessa carriera. Ma non è tutto. Di delibera in delibera, di circolare in circolare, si è “suggerito” sempre di più ai capi degli uffici di sottoporre ai sostituti i piani organizzativi. Al punto di arrivare nel 2009 a bloccare la riconferma del procuratore capo di una città piuttosto importante perché, pur essendo stata lodevole la sua capacità di smaltire l’arretrato, lo aveva fatto senza consultare i suoi sottoposti.
Ecco perché oggi, forse sentendosi appoggiati dalla giurisprudenza del Csm, i sostituti milanesi non accettano di dover consultare preventivamente almeno un aggiunto prima di fare iscrizioni nel registro degli indagati, prima di compiere atti investigativi, disporre intercettazioni, dare l’ok a un patteggiamento. Regole normali in tutti gli altri paesi dell’occidente dove l’ufficio della pubblica accusa è addirittura a gerarchia unitaria a livello nazionale e fa riferimento al ministro di giustizia o vertice equivalente, che coordina le indagini sull’intero territorio. Ma i pubblici ministeri italiani non solo godono del privilegio di appartenere alla stessa carriera dei giudici, ma fruiscono anche di un ampio regime di indipendenza proprio anche all’interno dell’ufficio cui appartengono, che solo formalmente ha una struttura gerarchica.
Nei fatti, la potenza di un forte sindacato con le sue correnti, le regole fissate dal Csm anche in barba alle leggi del parlamento, unite al consenso di un’opinione pubblica sempre più aizzata da una stampa complice, hanno di fatto sempre più personalizzato la figura del singolo pubblico ministero. Che è sempre in una botte di ferro, anche rispetto al capo dell’ufficio. Cui si può tranquillamente ribellarsi, come accaduto a Milano.
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