Luigi Marattin è uno degli esponenti di Italia Viva che crede nella costruzione di un partito liberaldemocratico e riformista, in grado di superare l’alternativa secca tra una destra sovranista e una sinistra populista. Nel dibattito di questi giorni nel centrosinistra, la sua convinzione non manca di fondamento. “Dal campo largo mi divide tutto: dalla giustizia al lavoro, passando per il fisco”, ha detto in una recente intervista. Tant’è vero che in molti hanno accolto con sconcerto l’ultima giravolta di Matteo Renzi, ritornato all’ovile del centrosinistra. Per Marattin, viceversa, è tempo di “dare una rappresentanza stabile a chi si riconosce in un governo Draghi, non in quello di Meloni, né in quello di Schlein”.

Del resto, anche in altri paesi europei esistono forze liberaldemocratiche legittimamente autonome dai partiti socialisti come l’FDP in Germania (alleato però con la SPD di Olaf Scholz), i Lib Dems nel Regno Unito (travolti dal maggioritario secco britannico) e Renaissance in Francia, capace finora di fare polo a sé grazie al sistema semipresidenziale e alla legge elettorale a doppio turno. In Italia esiste sul mercato politico almeno un 10% di elettorato interessato a questa prospettiva, ma l’offerta confezionata dai diversi frammenti riformisti e liberaldemocratici alle elezioni europee ha disperso il voto anziché compattarlo. Un’occasione sciupata che rende titanico il progetto di Marattin. Anche per questo motivo Matteo Renzi ha virato a sinistra, cercando di rianimare – questa volta dall’esterno – quella vocazione maggioritaria che aveva caratterizzato il Pd del Lingotto e quello che, con lui, aveva conquistato il 40% dei voti alle europee di 10 anni fa.

Il modello di riferimento più fresco offerto dall’attualità politica è la convention democratica di Chicago, capace di unire un’ampia coalizione di soggetti diversi, dai moderati (gli Obama e i Clinton) ai radicali (Sanders e Ocasio-Cortez) ai repubblicani delusi da Trump. Ispirato da questo modello e raccolta l’imprevista apertura di Elly Schlein (“niente veti”), Renzi gioca la sua partita con lo slogan “meglio i voti che i veti”. Ma fino a oggi ha raccolto proprio una raffica di veti, da parte di Conte, Fratoianni, Bonelli e diversi esponenti del Pd (ieri anche Matteo Ricci) che oggi si siedono sul piedistallo per fare gli esami di progressismo al sangue del leader di Italia Viva.

Per i riformisti del Pd questa dovrebbe essere l’occasione per capovolgere la prospettiva. Forti del voto che li ha premiati a livello personale alle elezioni europee, dovrebbero chiedere al gruppo dirigente del partito di riconoscere la contraddizione irreparabile dell’ultimo congresso, pensato e organizzato solo al fine di cancellare l’eredità di Renzi e – con essa – le tracce residue di riformismo. Costruire l’alternativa chiusi nel ghetto del campo largo, tenendo come stella polare il moribondo populismo pentastellato, significa infatti creare le condizioni per una nuova vittoria della destra alle prossime elezioni.

Il Pd ha spedito a Chicago Roberto Speranza e Giuseppe Provenzano, autoimmortalati dagli immancabili selfie: chissà se i due ambasciatori hanno capito che, tra i dem americani, il loro posto sarebbe accanto a Sanders e Ocasio-Cortez, non certo accanto agli obamiani (come gli stessi Joe Biden e Kamala Harris). Ecco, la vera domanda è: chi sono gli Obama del Pd e quando decideranno di attivarsi per ricostruire il centrosinistra riformista di cui l’Italia ha urgente bisogno?

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