In principio fu “VeryBello”, poi arrivò “ItsArt”, e infine – per ora – “Open to Meraviglia”. Tre progetti istituzionali, tre tentativi di promuovere la cultura e il turismo italiani attraverso il digitale e il linguaggio della contemporaneità. Tre occasioni, insomma, per raccontare l’Italia al mondo. Ma il risultato? Tre colossali fallimenti comunicativi. L’Italia è un paese in cui si produce cultura, si respira arte, si vive di bellezza, ma quando si tratta di raccontarsi al mondo, inciampa.

ItsArt doveva durare 40 anni

Nel maggio del 2021, l’allora ministro Dario Franceschini annunciava in grande stile la nascita di ItsArt, con l’ambizione di diventare la Netflix della cultura italiana. Una piattaforma di streaming in cui far convivere teatro, concerti, mostre, documentari e contenuti digitali inediti. Doveva durare quarant’anni, posizionarsi come una Rai 2.0, conquistare il pubblico italiano e internazionale. L’obiettivo economico? Raggiungere un fatturato di 105 milioni di euro entro la fine del 2022, ma non ci è mai andata neanche vicino. Nel 2022, ItsArt ha incassato appena 60mila euro da acquisti effettuati dagli utenti. Un tracollo persino rispetto al già deludente 2021, che si era chiuso con 140mila euro. Il risultato? Chiusura anticipata dopo meno di venti mesi, polemiche a non finire e un fallimento che ha lasciato più dubbi che contenuti. Ma per capire davvero ItsArt, bisogna fare un salto indietro al 2015, anno in cui esplose l’altro grande flop comunicativo della politica culturale italiana: VeryBello.

Poi il flop di VeryBello

Si trattava di un sito voluto sempre da Franceschini, pensato per promuovere gli eventi culturali italiani in occasione di Expo. L’intento era anche lì condivisibile. Il nome, però, fu talmente infelice da trasformare l’intera operazione in uno sketch virale. VeryBello venne accolto da una pioggia d’ironia sui social, critiche da giornalisti e linguisti e un diffuso imbarazzo nazionale. Il problema? Quel miscuglio tra inglese maccheronico e autocompiacimento che evocava più la caricatura dell’italiano all’estero, rispetto a un progetto serio di promozione culturale. Il tutto condito da una piattaforma piena di bug, priva di traduzione in inglese (paradossalmente) e con una grafica che sembrava uscita da un blog anni 2000.

Il brand Open to Meraviglia

Pensavate fosse finita? E invece no. Nel 2023, sotto la guida della ministra del Turismo Daniela Santanchè, è stato presentato un nuovo brand per promuovere l’Italia nel mondo: Open to Meraviglia. Una campagna che, tra le altre cose, prevedeva di trasformare la Venere di Botticelli in un’influencer digitale. L’idea, di nuovo, era quella di avvicinare il patrimonio culturale italiano ai linguaggi contemporanei. Peccato che anche stavolta tutto si sia concentrato su uno slogan sbagliato: Open to Meraviglia, una frase che non è né inglese, né italiano e finisce per non essere credibile in nessuna lingua. Il messaggio implicito? Non basta usare parole straniere, immagini famose e un pizzico di “wow effect” per creare una narrazione vincente. In realtà, l’effetto ottenuto è stato l’opposto: la campagna è stata derisa, fraintesa, attaccata da chi nella cultura ci lavora davvero e ignorata dal target internazionale.

Lo stereotipo

In tutti e tre i casi – VeryBello, ItsArt, Open to Meraviglia – la domanda è sempre la stessa: perché un nome così? Perché riproporre, in loop, quell’inglese scolastico e posticcio che rievoca lo stereotipo per eccellenza dell’italiano alla Fantozzi che “non sa parlare inglese”? Il paradosso è che l’Italia è uno degli Stati più ricchi al mondo in quanto a patrimonio culturale, ma è tra i meno capaci a raccontarlo. La cultura – soprattutto quella italiana – ha bisogno di un’altra comunicazione: più rispettosa, più creativa, più professionale. Non si può pensare che il “marchio Italia” funzioni per inerzia, solo perché siamo la patria di Dante, Michelangelo e Fellini. Non basta dirlo: bisogna farlo vivere nei linguaggi, nei formati, nei canali giusti. E, per farlo, serve coinvolgere chi la comunicazione la fa davvero. Il digitale non è il nemico, né lo è l’uso di altri linguaggi. Ma va fatto con competenza, sensibilità e visione perché, alla fine, “comunicare è cultura”. E farlo male significa anche perdere una parte di quella cultura che si dice di voler promuovere.

Tullio Camiglieri

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