Il confronto a La Sapienza
Pronti emendamenti di maggioranza per la riforma costituzionale di Meloni
Entro “una decina di giorni” la maggioranza presenterà degli “emendamenti rilevanti” a quella che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “la madre di tutte le riforme possibili”, ossia la riforma costituzionale del premierato diretto all’italiana, nota ai tecnici come Ddl AS 935.
Fra le innovazioni, si pensa a introdurre “uno statuto dell’opposizione” oltre a “tirar via il premio di maggioranza del 55% dei seggi” oggi previsto. Sono queste le due notizie date dal presidente della Commissione affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, così come le ha annunciate durante il convegno intitolato “La riforma costituzionale. Confronto con la I Commissione del Senato della Repubblica” organizzato dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, lo scorso 17 gennaio.
Il seminario, moderato dall’immarcescibile Fulco Lanchester – tra l’altro professore emerito di Diritto costituzionale italiano e comparato – si è dunque rivelato una sorta di tempi supplementari rispetto alle audizioni ufficiali che la Prima Commissione del Senato ha sostenuto dalla fine di novembre 2023 con decine di costituzionalisti. Il confronto fra giuristi e una rappresentanza senatoriale dei componenti della Commissione (oltre al presidente Balboni, sono intervenuti il senatore Enrico Borghi per Italia Viva, la senatrice Alessandra Maiorino per il Movimento 5 Stelle, il senatore Mario Occhiuto per Forza Italia e il senatore Dario Parrini per il Partito Democratico), si è rivelato anche l’occasione per la maggioranza di riconoscere l’utilità di alcune delle critiche mosse da più parti al progetto di riforma costituzionale.
Dal lato dei giuristi sedevano – fra emeriti, ordinari, associati – una quindicina di costituzionalisti o esperti di Diritto pubblico: i professori Paolo Ridola, Massimo Luciani, Gaetano Azzariti, Marco Benvenuti, Francesco Clementi, Giulia Caravale, Andrea Buratti, Roberta Calvano, Tommaso E. Frosini, Giovanni Guzzetta, Francesco Saverio Marini, Roberto Miccù, Ida Angela Nicotra, Pier Luigi Petrillo e Stefano Ceccanti. Coraggiosa la formula scelta con così tanti speaker (oltre 20), che ha costretto tutti, senatori e giuristi, a un sovrappiù di sintesi. Alla fine, solo quattro sono i costituzionalisti favorevoli al Ddl 935: i professori Andrea Buratti, Tommaso E. Frosini, Ida Angela Nicotra e Pier Luigi Petrillo.
I tempi intramuscolari hanno costretto gli accademici ad andare subito al sodo. Sono emerse delle critiche in taluni casi molto puntuali e tecniche – oserei dire oggettive – che hanno messo in luce potenziali profili di incostituzionalità del progetto di riforma, così come è stato presentato dalla maggioranza.
Fra gli interventi a mio avviso più solidi nella sua scientificità, quello della professoressa ordinaria di Diritto costituzionale della Unitelma Sapienza, Roberta Calvano, che ha fatto notare in questa circostanza come il progetto della maggioranza vada a infrangersi contro la spinosa questione del voto degli italiani all’estero, per altro voluto proprio dal missino Mirko Tremaglia. Oggi infatti essi eleggono 12 parlamentari (otto deputati e quattro senatori) in un’apposita circoscrizione elettorale che divide l’intero globo terracqueo in circoscrizioni parlamentari italiane (cosa che per altro ha suscitato più di una polemica di sovranità in diversi Stati, come per esempio in Canada, senza considerare che siamo nel paradosso tremagliesco della “representation without taxation”). Il numero limitato di seggi da assegnare ha fatto ponderare il peso specifico del voto degli italiani all’estero, che di fatto esprime un parlamentare ogni 700mila elettori invece che ogni 150mila, come per gli italiani residenti entro i confini. Tuttavia, anche a causa del nuovo boom migratorio italiano, si parla ormai di quasi sei milioni di potenziali schede elettorali. Questi voti, nel caso di un’elezione diretta di una carica monocratica come è il Presidente del Consiglio, avrebbero la medesima ponderazione del voto degli italiani residenti in Italia: one head, one vote. La prof Calvano ha sottolineato come questo suffragio per corrispondenza, sia stato occasione di irregolarità e contestazioni che hanno generato polemiche e accuse di brogli o di riconteggi. In un’Italia la cui affluenza è oggi fra il 50 e il 60% degli aventi diritto, questi milioni di potenziali elettori italiani all’estero facilmente potrebbero determinare quale presidente del Consiglio risulterebbe vincitore.
La prof Calvano ha smantellato ulteriormente l’impianto riformatore del governo ricordando poi che “il Parlamento diverrebbe organo eletto in via indiretta”, la cui composizione sarebbe la risultante del voto per l’elezione diretta del Premier. Si erano avuti già in passato premi di maggioranza (o, come nel caso del Porcellum, oggi in parte ripreso, premi di governabilità), ma nel progetto di revisione costituzionale del governo il premio deriverebbe per la prima volta dal voto per un organo costituzionale diverso, e non dal voto per l’elezione dei parlamentari. Questo è un inedito che rende il contrasto della riforma con i limiti alla revisione costituzionale rappresentato dagli articoli 1 e 48 (diritto di voto) della Costituzione abbastanza netto. Questa designazione del Premier “trascinerebbe con sé il riparto dei seggi tra le liste candidate nelle due Camere”. In altri termini, la lista del candidato Premier vittorioso (o della sua coalizione), godrebbe di un premio in seggi obbligato al 55% dei parlamentari, non è ancora chiaro se per la lista o la coalizione, con buona pace di tutti i pesi e contrappesi previsti dalla Costituzione per l’elezione delle figure istituzionali e di garanzia, dal Presidente della Repubblica ai cinque giudici costituzionali, i membri laici del Csm e la stessa possibilità di riformare la Costituzione.
Per di più, ha spiegato Calvano, l’elettore si troverebbe ad avere “da una a tre schede al seggio” a seconda di come il legislatore disporrà, ma l’unico voto determinante risulterebbe essere quello per il premier.
Fra le altre osservazioni interessanti, si segnala la domanda dello stesso Lanchester: “come riuscite a dare un premio di maggioranza collegato all’elezione del Presidente del Consiglio con due Camere: un ‘Sudoku’ diabolico” a cui nessuno dei senatori ha però dato una risposta. Si segnala poi l’intervento del prof Paolo Ridola, che ha criticato la riforma parlando di un “Parlamento ancillare la cui legittimazione nasce come appendice a quella del premier eletto” e ha sottolineato come il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica sarebbe “di fatto cancellato ancorché le norme scritte non verrebbero toccate” e ha suggerito invece di introdurre “lo statuto delle minoranze” e “la sfiducia costruttiva” prendendola dal sistema tedesco. Ridola ha stigmatizzato infine “il pasticcio della norma anti-ribaltone, la punta d’iceberg della rigidità di questo progetto” che “va a ledere il diritto al libero mandato parlamentare, stabilito all’art. 67″, che per Ridola è “un fattore di pluralismo delle dinamiche parlamentari” e non già solo un diritto del singolo parlamentare. Il prof Gaetano Azzariti ha sostenuto che la riforma manca di equilibrio e ha suggerito di rafforzare, insieme al vertice, l’autonomia del Parlamento, oltre a tener conto dell’indebolimento del potere di intermediazione del Presidente della Repubblica. Il prof Andrea Buratti ha invece sostenuto che la riforma va nella direzione del rafforzamento dell’esecutivo come nel resto d’Europa.
Il Prof. Francesco Clementi si è detto “non contrario a un irrobustimento dei poteri della premiership” in quanto ritiene che il Presidente del Consiglio italiano dovrebbe avere gli stessi poteri che hanno gli altri premier europei di democrazia pluralista. Tuttavia Clementi non ritiene che l’elezione diretta del premier sia la strada migliore e ha criticato come la riforma attua l’ampliamento di questi poteri. Fra l’altro, Clementi ha sostenuto che la riforma non dota il PdC dei poteri che hanno i suoi colleghi europei e ha invitato ad allargare lo spazio del dialogo fra le diverse parti politiche. Per farlo, secondo Clementi, si dovrebbe togliere di mezzo la norma sul “secondo premier”, definita come “incoerente due volte”; si dovrebbe salvaguardare il ruolo di garanzia del Quirinale e infine si dovrebbe scrivere un’altra legge elettorale, naturalmente da non mettere in Costituzione (questo fu uno degli errori della Repubblica di Weimar, che condusse all’elezione di Hitler) in quanto l’attuale – con il premio di maggioranza al 55% — è “un Weimar al cubo”.
Tra i favorevoli all’elezione diretta del premier, il prof Frosini ha sostenuto che l’opposizione non ha presentato un progetto alternativo, ma su questo è stato corretto dal senatore Borghi, di Italia Viva, che ha rivendicato come il suo partito abbia invece depositato in Commissione il progetto del cosiddetto “Sindaco d’Italia”.
Il prof. Miccù si è mostrato per certi versi incline al DDL 935, ma ha chiamato l’attenzione su una necessaria modifica dei poteri della seconda Camera sul modello tedesco. La prof Nicotra è sembrata preferire la proposta di riforma di Italia Viva e si è soffermata sul necessario cambiamento della legge elettorale, esprimendosi in favore del Mattarellum. Ha anche suggerito che si mantenga la fiducia iniziale del Parlamento al premier eletto, considerando che i governi italiani sono sempre di coalizione.
Singolare l’intervento del prof. Petrillo che ha invece sottolineato come la maggioranza stia seguendo il dettato dell’art. 138 della Costituzione per modificarla e lo ha detto come fosse una formidabile concessione.
Puntuto l’intervento dell’accademico dei Lincei Massimo Luciani, che si è detto scettico sulle “formule magiche” e ha sottolineato come la riforma non soddisfi l’interesse generale, ma non riesca nemmeno ad assicurare maggiore governabilità o stabilità dell’esecutivo e presenti dei rischi di autoritarismo che “non opera un’autentica separazione dei poteri, che pure c’è col presidenzialismo”. Luciani ha per altro stigmatizzato l’uso dell’espressione “Capo del governo” (che era la formula usata dal fascismo) quando si tratta del nuovo Presidente del Consiglio.
Le conclusioni sono state affidate al prof. Stefano Ceccanti che ha sollevato una questione di metodo, sostenendo che sulla riscrittura delle regole costituzionali maggioranza e opposizione dovrebbero cercare di arrivare a un testo condiviso, una soluzione approvata coi due terzi dei voti, in modo addirittura da evitare il referendum popolare confermativo. Nel merito, Ceccanti ha sottolineato come si siano confrontati “argomenti direttisti e anti-direttisti” e ha sostenuto che a livello elettorale gli argomenti direttisti funzionano, mentre non funzionano sulla forma di governo.
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