I gravi incidenti verificatisi in questi giorni per le vie di Nairobi e Mombasa in Kenya – dove giovani manifestanti hanno protestato contro una legge finanziaria contenente nuove tasse su carburanti, trasferimenti bancari, e beni di consumo – dovrebbero far suonare un campanello di allarme per l’Europa e i paesi cosiddetti “avanzati”.

Il pericolo si chiama “debito fuori controllo” e riguarda quasi tutti i paesi africani. Infatti le nuove tasse che il Parlamento di Nairobi intendeva introdurre servivano per cercare di far fronte (anche se in minima parte) a un passivo nel bilancio kenyano di circa 80 miliardi di dollari, pari al 70% del Pil nazionale. A seguito degli incidenti, il presidente Ruto ha annunciato il ritiro della legge contestata, per far rientrare le proteste. A causa del Covid, delle conseguenze della guerra in Ucraina, e infine del rialzo negli ultimi tre anni dei tassi di interesse, il debito complessivo dei paesi africani rappresenta oggi in media il 75% del Pil continentale, con alcuni Stati esposti per oltre il 100%. Insieme al Kenya, sono in forte stress a causa del proprio debito internazionale, fra gli altri, Sud Africa, Senegal, Ciad, Zambia, Ghana, Etiopia; gli ultimi quattro sono anche stati inclusi recentemente fra i paesi in “default”, cioè incapaci di adempiere ai rimborsi attesi. Zambia e Ghana hanno tuttavia negoziato con successo forme di riscadenzamento del loro debito nel club di Parigi, il consesso dei maggiori creditori pubblici, e sono in procinto di uscire dalla ingloriosa lista degli insolventi.

Mentre il debito africano cresce a dismisura, a causa delle sempre nuove infrastrutture necessarie nel Continente, il problema della sua trattazione si complica: i debiti non sono più soltanto assunti verso gli Stati “avanzati” (fra di essi figura naturalmente ai primi posti la Cina), ma sono anche derivanti dalle obbligazioni emesse dai paesi africani sul mercato dei capitali (eurobonds), acquistate da privati investitori, soprattutto grandi banche e istituti finanziari. Oggi è “privato” il 44% del debito africano, e “pubblico” il 23%. Rinegoziare i termini di ristrutturazione dei debiti africani verso gli enti privati è molto più complesso che nell’ambito “pubblico” del club di Parigi. Lo scorso 5 marzo, nella ridente città di Victoria Falls, in Zimbabwe, i ministri delle Finanze africani hanno annunciato che per far fronte agli obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite – fissati nell’Agenda 2030 – servono al Continente circa 1,6 trilioni di dollari nei prossimi sei anni, i quali naturalmente dovrebbero provenire in massima parte dai “donatori” stranieri (quindi con nuovi debiti per le casse africane).

Questo è il principale paradosso dell’Africa, anche se alcuni preferiscono chiamarlo col nome più aulico di “sfida”: un Continente già indebitato ben oltre i limiti della sostenibilità dovrà indebitarsi ancora di più per procedere velocemente alla transizione energetica, alla sfida climatica, alla costruzione di infrastrutture, alla creazione di nuovi posti di lavoro, nel percorso obbligato verso la “crescita”. Non è soltanto la Cina a contribuire all’indebitamento del Continente, coi suoi molteplici lavori infrastrutturali; anche l’Europa, i paesi Occidentali, la Turchia, le Monarchie del Golfo, e tutti i cosiddetti Nuovi Attori stanno creando innovative linee di credito verso il Continente africano, in questo “scramble for Africa” che dice di non voler somigliare alla precedente corsa imperialista del XIX secolo, ma in realtà ci assomiglia parecchio.

È bene ricordare che tutti i principali piani finanziari per lo sviluppo in Africa, che si chiamino Global Gateway (dell’Ue), Piano Mattei, Partnership for Global Infrastructure and Investment (del G20), Belt and Road Initiative (della Cina), nonché i numerosi programmi della African Development Bank sono essenzialmente nuovi crediti, seppure talora a condizioni favorevoli; cioè sono super-debiti, dal lato africano. Alcuni presidenti – guidati dal kenyano Ruto e dal sudafricano Ramaphosa – richiedono una revisione complessiva dell’architettura finanziaria internazionale, ai fini dell’alleviamento del debito del Continente; ed è chiaro che Pretoria porrà il tema fra le principali priorità del G20 sotto la sua guida, l’anno prossimo. In ambito G20 è stata peraltro creata una tavola rotonda per il Global Sovereign Debt, al fine di affrontare con ricette nuove la complessa questione.

Le proposte africane sono dirompenti, ma semplici: di fronte alle infinite, ineludibili priorità del Continente, malgrado la quantità dei debiti già contratti, occorre un “programma ponte” che preveda ulteriori, forti iniezioni di liquidità da parte dei donatori e degli Enti internazionali, per gli anni a venire. In sostanza, la soluzione al debito è ancora più debito. Prepariamoci quindi a nuove, frequenti dimostrazioni popolari per le strade delle capitali africane. Il tentativo di alcuni governi di ripagare i conti scoperti con nuove tasse genera inevitabilmente frustrazione e veementi proteste dei giovani africani; l’unica alternativa è fare come se il debito non esista. E infatti c’è anche chi propone sic et simpliciter la sua cancellazione immediata.

Alessio Paz

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