L'editoriale
Purgatori porta in paradiso Di Matteo, La7 osanna i Pm

È evidente che La7 ha fatto una scelta assai precisa, non solo editoriale, ma anche di politica giudiziaria: i due giornalisti di inchiesta della rete, Massimo Giletti e Andrea Purgatori, sono entrambi mobilitati in una sorta di settimanale esercizio del culto della personalità nei confronti di Nino Di Matteo. Questa esaltazione si sviluppa lungo due filoni fondamentali: quello riguardante la denuncia della mancata nomina di Di Matteo a presidente del Dap, addebitata a quel poveraccio del ministro della Giustizia Bonafede. Ne è uscito un grottesco scontro fra giustizialisti, arbitrato dal garantista Matteo Renzi perché al Senato i voti di Italia Viva sono stati determinanti per evitare che passasse la mozione di sfiducia presentata dal centro-destra. A sua volta, Purgatori da ben due settimane sta facendo trasmissioni sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio entrambe imperniate, per ciò che riguarda i vivi, sulla figura di Di Matteo.
Queste trasmissioni hanno uno scopo ben preciso: esercitare il massimo di pressione mediatica in vista del processo d’Appello sulla trattativa Stato-mafia del quale lo stesso Di Matteo, insieme agli altri pm Ingroia e Scarpinato, è uno dei protagonisti. Però una parte dell’interpretazione presentata come indiscutibile è stata smontata da Paolo Cirino Pomicino che ha dimostrato, per tabulas, che il governo presieduto da Andreotti – sostenuto da Psi, Pri, Pli e dal Psdi – svolse un ruolo determinante perché fosse approvato il decreto-legge, presentato il 14 settembre 1989 dal ministro socialista della Giustizia Vassalli, che raddoppiò i termini di custodia cautelare rimettendo in carcere i boss usciti per decorrenza. Fu così che si poté svolgere il maxiprocesso. Orbene, chi si oppose in modo frontale in Parlamento a quel decreto? Pomicino ha anche ricordato che fino al suo assassinio Falcone fu contrastato in tutti i modi da Magistratura democratica, dal Pci, dalla Rete di Leoluca Orlando. Sulle ragioni di quell’attacco frontale noi abbiamo già formulato un’ipotesi di lavoro: allora al Pci-Pds interessava più che la lotta ai corleonesi, che si erano impadroniti della mafia manu militari, liquidare da un lato Andreotti nel corso di una lotta assai lenta e graduata alla mafia, dall’altro lato Craxi attraverso Mani Pulite e Tangentopoli. Invece Falcone e Borsellino erano impegnati in una lotta totale alla mafia corleonese che non prevedeva e non dava spazio a strumentalizzazioni politico-partitiche di alcun tipo. Per questo Falcone incriminò per calunnia nei confronti di Andreotti il pentito Pellegriti.
Nel corso della trasmissione Atlantide, di mercoledì scorso, Di Matteo ha riproposto la teoria sulla trattativa Stato-mafia sostenendo che Riina accelerò i tempi dell’attentato a Borsellino proprio perché i carabinieri del Ros, guidati da Mori, avevano preso contatto con Vito Ciancimino per sapere quali fossero le condizioni dei boss per fermare l’offensiva stragista. Secondo Di Matteo da questa richiesta avanzata da Mori, Riina trasse la conseguenza che andava accelerato l’attentato a Borsellino perché era la dimostrazione che lo Stato era molto debole: andava dato un altro colpo per piegarlo definitivamente. Prima di andare avanti, fermiamoci un attimo per mettere a fuoco bene di chi parliamo: il generale Mori è stato l’artefice dell’arresto di Totò Riina (e se fosse vera la teoria della trattativa sarebbe proprio il caso di dire: vatti a fidare) ed evidentemente esistono forze e soggetti non solo appartenenti alla mafia che ancora non glielo perdonano e vogliono fargliela pagare trascinandolo da un processo all’altro per tutta la vita.
Ciò detto, ci vogliamo soffermare sulla coerenza logica della ricostruzione secondo la quale Totò Riina a un certo punto fece riunioni per accelerare l’attentato a Borsellino. Secondo Di Matteo proprio la pretesa avance fatta dai carabinieri del Ros sarebbe la ragione di questa accelerazione. Ora qui, a nostro avviso, siamo sul terreno proprio della contraddittorietà logica più assoluta: neanche a una mente abbastanza rozza come quella di Riina poteva sfuggire che qualora, dopo l’attentato a Falcone, fosse seguita a 55 giorni di distanza un’altra strage avente per vittima Borsellino e la sua scorta, ciò avrebbe provocato non un ulteriore passo in avanti della pretesa trattativa, ma una durissima risposta dello Stato. C’è un autentico salto logico fra la denuncia del preteso tentativo di Mori di agganciare i corleonesi per aprire la trattativa e la decisione di Riina di far saltare subito “per aria” Borsellino al centro di Palermo trascurando le conseguenze che un simile gesto avrebbe certamente provocato. Cosa che infatti si verificò puntualmente.
Non a caso il carcere duro (il famoso 41 bis) fu esteso ai mafiosi dal governo Andreotti subito dopo via D’Amelio, anche perché a quel punto vennero meno le resistenze che il Pci aveva fino ad allora manifestato. La trasmissione ha invece totalmente sorvolato su un’altra ragione che secondo alcuni avrebbe determinato l’accelerazione dell’attentato a Borsellino e cioè il fatto che proprio poco tempo prima il procuratore Giammanco gli aveva assegnato il procedimento riguardante i rapporti mafia-appalti, tematica incandescente perché essa avrebbe riguardato la corresponsabilità di molte grandi imprese dell’edilizia e anche di qualche personalità politica. Invece avvenne una cosa molto strana: dopo che Borsellino fu ucciso (anche Falcone aveva considerato il tema fondamentale) non solo scomparve la sua agenda rossa su cui si è molto soffermata la trasmissione, ma la tanto celebrata procura di Palermo dichiarò il fine indagine proprio sul decisivo filone mafia-appalti.
Quindi, su questo nodo Riina ottenne l’obiettivo che si era prefissato. Ultima questione. Una trasmissione che si è soffermata tanto su vari personaggi non ha neanche citato a proposito della gravissima operazione di depistaggio (nella quale, come hanno detto ieri gli avvocati di parte civile, Di Matteo ebbe un ruolo importante), operata sul successivo processo per l’uccisione di Borsellino sul ruolo svolto dal super poliziotto La Barbera, adesso defunto, che a quanto sembra minacciò in modo molto pesante Scarantino per spingerlo a svolgere il ruolo di pentito. Ora, La Barbera non era uno qualsiasi, era un autentico super poliziotto probabilmente anche legato ai Servizi. Non a caso l’allora capo della Polizia De Gennaro lo inviò al G8 di Genova come suo uomo di fiducia. Ma anche allora, come si vide alla Diaz, i risultati non furono brillanti, anzi furono molto inquietanti.
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