Putin, Salvini rimette la felpa: Tajani si dissocia, l’ira di Meloni

Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini durante il Question time alla Camera dei deputati. Roma, Mercoledì, 13 marzo 2024 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse) Transport minister Matteo Salvini during the Question time in the Chamber of Deputies. Rome, Wednesday, March 13, 2024 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)

Uno, Matteo Salvini, è a Milano, inaugura una fiera e se ne esce così: “Le elezioni in Russia? Quando un popolo vota ha sempre ragione e il verdetto va rispettato”. Non una parola su morti, assassini politici, arresti, violenza, democrazia negata ogni giorno. Navalny? Boh, quasi un incidente di percorso. Che lo zar resti tale fino al 2030, trent’anni di regno, è “volontà popolare”. L’altro, Antonio Tajani, è a Bruxelles, vertice dei ministri degli Esteri della Ue alla vigilia del Consiglio europeo di giovedì e venerdì. Bloccato sotto la lanterna dell’Europa building, mantenendo la proverbiale calma e atarassia – che poi sono solo simulate – replica così: “Sono il ministro degli Esteri e la mia posizione è chiara oltre che nota: le elezioni in Russia sono state caratterizzate da pressioni forti e anche violente. Navalny è stato escluso da queste elezioni con un omicidio, abbiamo visto le immagini dei soldati nelle urne, non è stata un’elezione democratica”.

I vicepremier opposti

Il bianco e il nero non potrebbero avere una rappresentazione più plastica. Gli opposti in questo non si uniscono e restano tali. E poiché si tratta dei due vicepremier del governo italiano, Giorgia Meloni ha tecnicamente e ufficialmente un problema grosso come una casa. Che non può più derubricare a “retroscena giornalistici dei soliti giornaloni che gufano contro il governo”. Un problema che scoppia in tutta la sua evidenza nella settimana che avrà al centro il Consiglio europeo (21-22 marzo), il penultimo prima del voto, e nel mezzo di uno stallo ucraino che vede l’Europa divisa sulle mosse da fare. Le opposizioni – a cui non pare il vero di distogliere l’attenzione dal pasticcio dell’ormai “campo perso” del centrosinistra – saltano all’ugola della premier, “cara Giorgia, con che faccia andrai a Bruxelles a sostenere la causa Ucraina?”. Cosa ci verrai a raccontare oggi e domani in Parlamento per le comunicazioni sul Consiglio Ue? E cosa dirai al Presidente Mattarella nel tradizionale pranzo al Quirinale prima di volare a Bruxelles?

La Lega nel pomeriggio cerca di buttare acqua sul fuoco, “abbiamo solo preso atto di un risultato elettorale”. La pezza è quasi peggiore del buco. Dietro la finta banalità del male di Salvini c’è una strategia precisa: spingere Meloni sempre di più nelle braccia di Ursula von der Leyen che per essere rieletta sta cercando i voti dei Conservatori (Ecr), la famiglia politica europea di cui Meloni è presidente e in cui entreranno anche i voti di Fidesz, il partito di Orban. Un abbraccio “letale”, secondo gli auspici di Salvini, visto che i sondaggi europei danno le destre nazionaliste e sovraniste in costante crescita (ID, 93 seggi) e ormai al terzo posto dopo Ppe (182 seggi), S&D (140). I Conservatori (Ecr) sono stimati con 83 seggi e Renew Europe con 81. Von der Leyen – è sempre l’auspicio di Salvini – potrebbe essere il cavallo zoppo che azzoppa anche i piani da statista europea della premier Meloni. Si tratta di mettere in fila i fatti.

L’alleanza Giorgia-Ursula

La complicità tra Ursula e Giorgia è sotto gli occhi di tutti: si sono scelte, hanno deciso di condividere un comune destino atlantista, anti Russia, filo Kiev, a media distanza rispetto a Israele, Piano Mattei, difesa europea comune (e anche la politica estera). Non c’è palco internazionale che Giorgia non condivida con Ursula: domenica erano insieme al Cairo, lo erano a Tunisi la scorsa estate, a Kiev per il G7 a guida italiana. Il patto ha un prezzo: si chiama Orban, anche lui filoputinista ma detentore di un ricco pacchetto di voti al parlamento europeo. Von der Leyen gli ha abbonato 10 miliardi di aiuti europei congelati da due anni (altri 20 restano bloccati per violazione dei diritti). Il compromesso è anche l’assegno di 7 miliardi all’Egitto di Al Sisi, non certo un campione di democrazia. Tutte scelte di campo in nome della real politik (senza l’Egitto non parte il piano Mattei, non si bloccano i flussi dell’immigrazione e non arrivano aiuti a Gaza) che in questi ultimi mesi hanno fatto storcere naso e bocca alla famiglia dei Socialisti europei, l’altro grande bacino di voti per von der Leyen. Anche i Popolari non sono compatti: nella convention di Bucarest che due settimane fa l’ha confermata Spitzenkandidaten, le hanno fatto mancare circa ottanta voti.

Salvini e la lista Zaia

Insomma, la rielezione di Ursula non è né scontata né facile. Macron e i liberali di Renew Europe (che hanno anche un’idea diversa, più muscolare sugli aiuti all’Ucraina) e del Pde hanno detto che non faranno votare la presidente uscente. Dei mal di pancia tra i socialisti abbiano detto. L’eurodeputata lituana Rasa Juknevičienė, vicepresidente del Ppe, ieri ha detto che “Salvini si vergognerà delle parole sulla vittoria di Putin e la storia risponderà, come ha sempre fatto, con la caduta di tutti i dittatori”. Il Ppe ieri ha chiesto ufficialmente di non riconoscere il voto russo. Salvini muove le sue pedine in questo scacchiere: non ha nulla da perdere, qualcosa forse da guadagnare. Alla faccia della base leghista che non è proprio d’accordo ma pazienza. Gioca d’azzardo il leader della Lega. Il fronte interno non lo aiuta tra dissidenti e quelli che dicono: “Ha esaurito il suo tempo”. Una lista Zaia alle regionali (il diretto interessato non la esclude) gli leva il sonno.