Vladimir Putin fu chiarissimo: questo non ci piace e vi dico con tutta chiarezza che noi lo cambieremo. Ci avete ipnotizzato con questa sciocchezza della fine della storia e del mondo monopolare e per un po’ vi ho anche creduto. Adesso ho capito, vi ringrazio per lo sforzo che avete fatto, rifiuto tutto di voi, non mi piace come mangiate, come andate a scuola, come pensate, non mi piace il vostro modo di divertirvi e di considerare noi, non siete come noi e noi non vogliamo essere come voi.

Era l’undici Febbraio del 2007 quando Vladimir Putin ancora magrissimo e dall’eloquio bellicoso prese il microfono alla conferenza di Monaco di Baviera sulla Politica di Sicurezza di fronte a una giovanile Angela Merkel che lo guardava trasognata come se avesse voluti saltargli al collo e baciarlo. Putin parlava davanti a un consesso di capigliature bianche e di pance gonfie, gente che tamburellava con le dita o prendeva qualche distratto appunto. Ma tutti sembravano consapevoli del significato delle parole dell’uomo forte dell’impero russo. Quelle parole significavano: siamo in guerra, speriamo di vincere senza dover usare le vere armi, ma vi detestiamo per come siete fatti, per come parlate, per quello che voi credete di essere, per quello che siete. Concetti questi che sono stati ripetuti a pappagallo dal suo puppet-vice Medvedev, il quale non fa che ripetere che non avrà più pace finché noi occidentali non saremo spariti dalla faccia della terra perché siamo codardi, facciamo letteralmente schifo e nulla può esserci in comune con loro.

Non molti avevano capito che genere di figura ideologica fosse Vladimir Putin. Un aitante ufficiale del Kgb, selezionato per vivere all’estero, sia pure nell’est sovietico della Repubblica democratica tedesca a Dresda dove comandava una importantissima centrale di spionaggio sull’Europa occidentale grazie al coordinamento con la Stasi delle vite degli altri. A Putin non piacque affatto l’idea di Gorbaciov di buttare giù il muro di Berlino per far contento Ronald Reagan e ripeterà come un disco rotto che la più grande sciagura che avesse subito la sua patria fu l’idea perversa di Boris Eltsin quando si mise d’accordo con i capi bielorussi ed ucraini per dichiarare cadavere la gloriosa Unione Sovietica. La reazione di Putin fu identica e quella di Giulio Andreotti che nei giorni della caduta dell’Urss si trovava in visita da Gheddafi e pietrificato dall’orrore profetizzò che il mondo non sarebbe stato un inferno totalmente americano.

Putin aveva già parlato al Parlamento tedesco in lingua tedesca dicendosi orgoglioso di usare l’idioma di Schiller, di Goethe e di Kant e di considerare sé stesso europeo.
Nel giro di pochi anni tutto era cambiato: le Torri Gemelle, il terrorismo, le rivolte cecene, che aveva represso nella maniera più brutale. e poi le guerre contro l’Iraq che si era impossessato del Kuwait dopo aver fatto la guerra per dieci anni contro l’Iran gli avevano fatto cambiare idea sull’Occidente. Quell’11 Febbraio del 2007 a Monaco di Baviera, Volodia – come lo chiamano gli amici del circolo più ristretto – fece una dichiarazione epocale: era molto meglio la guerra fredda con le sue rudi regole e il suo equilibrio di poteri e minacce in agguato, di questa pace calda in cui gli americani da soli andavano a castigare ora i serbi ora gli iracheni e chiunque desse a loro fastidio tra gli applausi dell’intero Occidente e senza curarsi minimamente di ciò che pensavano i paesi che non sono né di qua né di là.

Putin già allora aveva in mente uno scontro bipolare in cui non si sarebbero battuti i capitalisti contro i socialisti, fatto peraltro mai accaduto perché la guerra ideologica era stata soltanto il paravento di una guerra militare nucleare, ma sarebbe stato lo scontro fra chi odia l’Occidente e l’Occidente. Putin non si pone assolutamente il problema di come si formino le civiltà a qualsiasi latitudine. Del perché il progresso tecnologico, le scoperte scientifiche, le medicine che moltiplicano gli anni di vita, l’ingegneria che tenta di competere con la barbarie della natura, provengano quasi interamente dal deprecato mondo occidentale, dalle sue flaccide democrazie liberali insieme alla buona musica e alla cattiva musica, alla buona arte e alla mediocre arte ma comunque tutta l’arte. Ma vuole esprimere il suo più sprezzante fastidio per l’idea della scuola occidentale, per il modo in cui gli occidentali considerano le università e la cultura, per come si vestono, mangiano, bevono. Concetti talmente chiari, quelli espressi in Germania 15 anni fa, che rappresentano le radici più profonde di quanto è accaduto oggi.

Nel 2008 Putin annunciò che avrebbe rimesso in piedi l’impero e partì alla conquista della Georgia. Disse che il mondo attuale è un mondo sotto padrone che quel padrone è il suo sovrano e, manco a dirlo, quel sovrano è americano. Spiegò che questo mondo ci ha veramente rotto le scatole con la sue continue lezioni sulla democrazia perché non esiste alcuna democrazia reale ma soltanto un unico centro decisionale. È evidentissimo che Putin ragiona in termini imperiali e non riesce a supporre che gli altri possano pensare in termini diversi come, per esempio, la diffusione della ricchezza, il piacere del creare sistemi funzionanti come peraltro fanno ormai con generosità i cinesi i quali si sono specializzati fra l’altro nell’edificare delle megalopoli da quaranta milioni di abitanti serviti di tutto punto con il treno su monorotaia davanti alla loro finestra. A Putin dava molto fastidio che gli occidentali non facevano altro che “darci continuamente lezioni di democrazia”. Putin non vedeva altro che movimenti di truppe americane in giro per il mondo e se la prendeva sul piano personale: e noi, allora, chi siamo?

Se guardate quel discorso su YouTube vedrete che una sala di teste assorte nell’ascolto intanto liberavano un sussulto, ma nulla di più. Eppure, Putin stava dicendo ciò che poi avrebbe applicato alla Bielorussia, uno stato vassallo destinato a essere riassorbito nella madre patria russa. E nell’imporre un presidente fantoccio all’Ucraina che poi ha osato ribellarsi come se davvero gli ucraini esistessero, e potesse esistere un paese con quel nome, come se avessero una identità, una dignità, una cultura, una economia. Putin disse che non gli piaceva l’Europa. Questa Unione europea non era – non è altro – che un vassallo degli Stati Uniti come se gli Stati Uniti fosse un impero monolitico come quello cinese o l’altro impero che sta mettendo su il primo ministro turco Erdogan. Rivisitando quell’importante discorso del 2 febbraio 2007 si scopre che il Putin di oggi è esattamente quello di ieri e sembra un uomo fortemente turbato sul piano esistenziale dal terrore di non poter che esercitare un comando di natura imperiale benché il suo paese, la Russia, occupi circa un ottavo delle terre emerse.

Ma il Putin di allora, come quello di oggi, esprime un malessere, un disgusto, una insofferenza incurabile per il mondo com’è e per il mondo come non è ancora potuto essere. Si avverte spasimo, voglia di sembrare caustico, spiritoso. E anche se è un uomo che raramente alza la voce, sembra davvero un uomo che si è caricato di un’angoscia che va molto oltre i confini sia della sua patria che delle patrie altrui. Devono essersene accorti anche i cinesi, i quali malgrado i duetti vocianti contro i cattivi occidentali, stanno trattando con gli americani la riduzione delle tariffe doganali e aspettano solo di capire se questo Putin seguiterà a crear loro problemi di mercato e di equilibrio internazionale o se in qualche modo si potrà fare a meno di lui. Nel frattempo, la guerra continua e continua male perché le forze ucraine hanno ricevuto importanti rifornimenti di armi che già sono al contrattacco in una guerra che non ha nulla a che vedere con quella che Putin aveva immaginato e che rischia di non finire mai se qualcuno non busserà educatamente alla sua porta per dirgli: “Compagno, è tempo di riposare”.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.