Delusione, indignazione, collera, sono i sentimenti che montano ogni qual volta viene trasferito altrove un processo di grande rilevanza sociale o risonanza mediatica, specie se gli imputati ricoprono posizioni politiche o il reato perseguito tutela beni comuni. L’incompetenza per territorio, la rimessione del processo, la dislocazione del medesimo presso una sede giudiziaria distante, onde evitare l’intreccio di relazioni tra magistrati, vengono vissuti dai più come sinonimo di giustizia negata. Così, gli avversari dell’imputato, le persone offese e il variegato corteo di enti, comitati, associazioni rappresentative di interessi diffusi non accettano lo spostamento territoriale; tantomeno si rassegnano al fatto che, nel diverso ufficio giudiziario, il processo debba ricominciare daccapo: catastrofe inaudita, frutto di regole assurde o manovrate ad arte da astuti difensori.

Ne nascono propositi di ribellione, chiamate alla mobilitazione di massa per continuare la battaglia fuori dell’aula di tribunale, facendo esplodere nelle piazze il rancore che sobbolle durante le udienze. Sappiamo, del resto, che le vittime in carne ed ossa non si lasciano ridurre entro gli schemi formali del rito penale: tendono a debordare con l’enorme carico di umana sofferenza del quale sono portatrici, mentre aggregazioni di cittadini infuriati si accalcano a ridosso dei tribunali in nome della lotta implacabile al fenomeno criminoso di turno (mafia, corruzione, disastri ambientali). Poco importa che costoro avvertano o meno di denunciare, in questo modo, la militanza a favore della propria causa in cui sono convinti di immischiare i magistrati che amministrano giustizia nel luogo di commissione del reato.

Episodi del genere, piantati nella cronaca più recente, ridanno drammaticamente vita ad un dilemma che pensavamo risolto dallo Stato costituzionale di diritto, del quale tutti dovremmo condividere i postulati: quale istanza prevalga tra il criterio naturale di competenza per territorio, da un lato, e l’imparzialità del giudice, dall’altro. Le schiere di indignati reclamano il rispetto senza eccezioni del canone risalente, secondo cui la giustizia va riaffermata proprio là dove si è consumata la rottura della pace sociale, davanti alla comunità colpita e turbata dal delitto. Esigenza alla quale la legge dà indubbio rilievo. Non però fino al punto di trascurare l’esistenza, in quel territorio, di condizioni tali da influire sul corretto svolgimento del processo e mettere a repentaglio la posizione di distacco dagli interessi in gioco che deve connotare il giudice incaricato della decisione. L’imparzialità del giudice (art. 111 comma 2 della Costituzione) si colloca per l’appunto al vertice della scala di valori coinvolti, poiché, se manca, «tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di significato» (sono le parole della Corte costituzionale, sentenza n. 306 del 1997).

Nessuno si contenta più di prendere parte al processo, se danneggiato dal reato, o di controllarne l’andamento da spettatore in base al principio di pubblicità. Ogni deroga alla competenza territoriale equivale, nell’opinione corrente, a strappare dalle mani il processo sul quale la collettività aveva gettato un’ipoteca morale. Ci si rifiuta di capire o forse si comprende sin troppo bene che, in assenza di imparzialità del giudice, quanto si compie nelle aule dei tribunali non ha più nulla da spartire con l’insieme di attività che chiamiamo processo. L’idea ereditata da una lunga tradizione è esattamente questa; spiace che sia caduta oggigiorno in crisi profonda, tanto che non sapremmo dire se l’imparzialità del giudice sia ancora considerata dai cittadini fonte indispensabile di fiducia istituzionale in una società democratica.

Eravamo infatti abituati a pensare che il processo penale viva – letteralmente – della separazione verso l’esterno; sussista cioè come categoria dell’esperienza sociale solo a patto di tenere fuori le ansie, i desideri di rivalsa, i condizionamenti, le pressioni in grado di influire sui suoi protagonisti, alterandone o inquinandone i comportamenti: il giudice, specialmente, deve rimanere estraneo alla contesa, libero da passioni e interessi di sorta. Come ha chiarito la Corte europea dei diritti dell’uomo, le regole deputate al mutamento del giudice, compresa l’estrema del cambio di sede al processo, esprimono l’intento di eliminare ogni ragionevole dubbio sull’imparzialità del giudice. Si badi: questi congegni dovrebbero operare non solo quando sia dimostrata l’assenza di neutralità, il difetto di equidistanza dalle parti, ma pure se l’immagine del magistrato viene offuscata dall’apparenza di partigianeria.

Prima ancora, alcuni strumenti mirano a prevenire il rischio del pregiudizio, il pericolo di volontà già orientate in partenza, d’un convincimento che non abbia origine nell’accertamento processuale delle responsabilità. È il caso del trasferimento del processo presso un distretto di Corte d’appello diverso dall’ambito territoriale individuato sulla scorta dei criteri ordinari, quando siano coinvolti a vario titolo magistrati che qui attualmente operano o esercitavano le proprie funzioni al momento del fatto. La consuetudine e lo scambio professionale, la colleganza, la familiarità, la convivialità, la condivisione di vedute, di spazi, le relazioni d’amicizia o solidarietà, sono tutte situazioni naturali, fisiologiche, cui la legge – senza nominarle ma presumendole esistenti – dà rilevanza come altrettanti ostacoli alla piena imparzialità del giudice.

Nel riflettere su sé stessi, talvolta i magistrati indulgono a riconoscersi la massima, inscalfibile attitudine personale al distacco emotivo; la capacità di restare impassibili, immuni alle sollecitazioni esterne quasi che l’abitudine a giudicare i propri simili li abbia corazzati, dotandoli d’un grado di resistenza alla tentazione di partigianeria che rende inutili gli istituti funzionali all’avvicendamento del giudice o alla traslazione del processo in altro luogo, eventualità difatti relegate statisticamente ai margini della prassi applicativa. E invece simili presìdi all’integrità del giudizio meritano un serio rilancio in quanto le crescenti tensioni sociali cui assistiamo, dentro e intorno al processo penale, smentiscono quotidianamente l’insistita retorica che ne predica la fatale obsolescenza nel mondo contemporaneo.

Daniele Negri

Autore

Professore ordinario di procedura penale