Me la ricordo, la pena di morte. Ricordo il senso di morbosità e paura con cui vedevo le fotografie sulla prima pagina del Messaggero che mio padre portava a casa. La morte era somministrata, questo il verbo, mediante fucilazione nella schiena nel forte Bravetta a Roma, sicché si vedevano nelle immagini confuse dei grigi con corpi ciondolanti dalla sedia oppure caduti, spesso con il cappotto, talvolta con il cappello volato via con un po’ di cervello. Il fascismo era finito, la guerra era finita, ma i tribunali seguitavano ad infliggere pene di morte finche l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana non mise fine per sempre all’antica usanza.

Il Regno d’Italia aveva sospeso la pena capitale per trent’anni prima che Mussolini la reintroducesse per reati e attentati contro sé stesso e i regnanti. Le esecuzioni erano affidate alla polizia giudiziaria che usava plotoni armati di vecchi moschetti di calibro poco letale e di canna troppo corta. I giustiziati apparivano sempre stupefatti dell’essere ancora vivi ma quasi morti, dopo la prima scarica e rantolavano fin quando un maresciallo con la pistola faceva saltare le cervella. Le descrizioni giornalistiche delle esecuzioni abbondarono durante tutto lo scorso secolo, ed esisteva un giornalismo dedicato alle cronache degli ultimi istanti, delle ultime istanze, del colpo di grazia. Era un mondo, quello in cui la mia generazione è nata, in cui il patibolo faceva parte della vita quotidiana.

A Londra la forca funzionava come un orologio e il boia veniva a trovarti in cella col suo assistente per pesarti e trovare la taglia giusta di capestro affinché la morte avvenisse per frattura e non per strangolamento, molto gentili anche con l’ultima donna precipitata nella botola per aver ucciso un amante crudele, la storia del film Ballando con uno con uno sconosciuto. D’altra parte, era un mondo in cui arrivavano e si metabolizzavano notizie di eccidi di massa in cui l’essere umano eccelle per organizzazione e determinazione. Se nelle democrazie borghesi si mandava a morte dopo regolare processo, nelle democrazie popolari tutto era molto più vasto e sbrigativo. A Parigi si ghigliottinava nel cortile della prigione usando una macchina che non somigliava affatto a quella verticale di Robespierre, ma a una specie di attrezzo agricolo. Negli Stati Uniti, sempre all’avanguardia, si mandava la gente a friggere sulla sedia, ma anche a morire soffocata dal gas prodotto dalla caduta di cristalli velenosi in una bacinella accanto al condannato legato alla sedia. Mentre dagli oblò, giornalisti e testimoni guardavano e annotavano senza spendere emozioni.

Il filosofo inglese Bertrand Russell raccontò in una lunga intervista degli anni Sessanta ancora visibile su YouTube, del suo viaggio nella Russia rivoluzionaria quando andò da Lenin che con sua sorpresa parlava un discreto inglese. Lenin fu felice di spiegare al filosofo inglese come affrontare i problemi dei contadini: “La domenica andiamo in campagna per aiutare i contadini poveri a impiccare i loro parenti ricchi e a far penzolare dagli alberi tutti quei parassiti”. Russell corse via indignato col primo treno da San Pietroburgo, come farà poco dopo anche l’economista John Maynard Keynes. Le rivoluzioni di massa e i regimi dei socialismi nazionali hanno praticato per decenni le politiche ingegneristiche dell’uso politico del dare la morte, sicché l’evento in fondo minimalista dell’uomo solo e vinto dalla sentenza che trascorre l’ultima notte a ragionare sulla propria morte come il protagonista del Muro di Jean Paul Sartre, appare meno oscena di quanto lo sia oggi.

Oggi vediamo le foto dei giovani ventenni, maschi e femmine, impiccati a Teheran per aver indossato un velo storto o per avere chiesto la liberazione da una cricca di preti assassini. Nessuno sa che cosa accada negli enormi campi di rieducazione cinesi dove vengono trasferiti a centinaia di migliaia i giovani troppo irrequieti di Hong Kong. In Italia la pena di morte era applicata in tutti gli Stati preunitari salvo che nel granducato di Toscana dove era stata abolita con largo anticipo rispetto alla media europea. A Roma dopo l’occupazione napoleonica era stata adottata la ghigliottina, nel gergo popolare dei sonetti del Belli detta “Quajotina”, montata e smontata a Piazza del popolo oppure davanti al ponte di Castel Sant’Angelo, luogo prediletto per il taglio della testa sia nella versione plebea dello squartamento che in quella aristocratica di Beatrice Cenci che poteva pagarsi un boia di fama e di taglio fino.

Il fascismo, la guerra, l’occupazione tedesca e la Resistenza portarono l’Italia dei Savoia in fuga alla Repubblica e alla democrazia, ma ancora nel culto della morte, delle esecuzioni consentite soltanto per reati legati al fascismo, motivo per cui ancora trent0amnni dalla ine del fascismo e della guerra, l’afflizione della morte aveva ancora un carattere ambiguo, ma per lo più positivo perché associata all’idea dello “sdegno popolare”. La follia di infliggere il tormento della prigione “gettando via la chiave” e quello finale dell’esecuzione era ancora negli anni Settanta, e rientra nella concezione della guerra allo Stato borghese delle Brigate Rosse attraverso l’uso didattico della morte inflitta a uno per educarne mille.

Non discendiamo dagli angeli e la società intera non è sempre in grado di valutare e adottar il rispetto della persona, ancora prima della “tolleranza” parola già equivoca che confermerebbe la necessità di uccidere, salvo, invece tollerare, con magnanimità. Il boia si aggira ancora fra noi e indossa molte uniformi diverse, ma è sempre lo stesso antico boia che sogna di straziare e far urlare dal dolore e dalla perdita di dignità, il nemico del momento, deciso e mostrato in televisione, o sulle piazze con capo reciso e tenuto per lo scalpo, mentre le tricoteuses che sferruzzano e applaudono ogni volta che viene giù la mannaia e distrugge una vita.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.