Toghe e stampa
Quando con una telefonata all’alba iniziò la caccia a Berlusconi
Mille giorni dopo Tangentopoli e Mani Pulite mi capitò di venir svegliata di notte. O forse era l’alba del 22 novembre 1994. Senza capire che ora fosse né dove io mi trovassi, risposi al telefono con l’immediata sensazione che qualcosa di grave fosse accaduto o stesse per accadere. Appresi così, dalla voce del mio amico Memmo Contestabile, sottosegretario alla giustizia, che il Corriere della sera sarebbe uscito a pagina piena con la notizia di un’informazione di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ci risiamo, ho pensato subito. Benché non frequentassi più da due anni la sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano, rividi con lo sguardo del passato il quarto piano con gli uffici della procura, immaginai gli sguardi soddisfatti dei sostituti procuratori che incedevano nel corridoio con il consueto codazzo dei cronisti giudiziari. Ebbi l’immagine plastica dell’ufficio da cui era partita la notizia in esclusiva per il Corriere e la faccia del giornalista prescelto per lo scoop. E la mente geniale di chi aveva scelto la data adatta.
Ero andata a Napoli in compagnia del ministro guardasigilli Alfredo Biondi e il sottosegretario Contestabile, i quali con me, che ero Presidente della Commissione giustizia della Camera, avevano formato il primo gruppo dei garantisti ai tempi del governo Berlusconi. L’appuntamento era di quelli destinati a diventare storici. Se poi lo fu, sarà per motivi opposti a quelli sperati. La mattina in cui Berlusconi, e sarà la prima volta per un presidente del Consiglio in carica, riceverà un mandato di comparizione firmato dal pm Antonio Di Pietro, si sarebbe inaugurata la prima Conferenza mondiale sulla giustizia. E si inaugurò, davanti alla faccia sgomenta di personalità del mondo politico e giudiziario provenienti da tutto il mondo. E noi relatori costretti a sfilare in una passerella accecante di fotografi e televisioni. Tutti avevano visto il Corriere.
Seppi da subito che il governo non sarebbe durato a lungo. La mia esperienza degli anni precedenti, prima ancora di Tangentopoli e fin dai tempi della Duomo Connection, mi aveva insegnato che una notizia di cronaca giudiziaria, se va a toccare la politica, non è mai frutto solo di attività giornalistica. E il Corriere non era l’Unità, ma era Confindustria e Mediobanca. Avevo negli occhi il percorso con cui si erano salvati i proprietari di grandi testate, chinando la testa davanti alle Procure ed evitando il carcere. Gli industriali della carta insieme ai propri giornalisti avevano svolto il ruolo di tricoteuses mentre i procuratori alzavano le ghigliottine. Il “matrimonio” non si era mai sciolto, fin dal giorno in cui il procuratore Borrelli aveva ammonito: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Quell’armadio, nelle sue parole, stazionava in una stanza di casa Berlusconi. Che non solo si era candidato, ma aveva anche vinto le elezioni. Il primo conto lo aveva già pagato, nell’estate del 1994, quando era stato costretto a ritirare il famoso “decreto Biondi”, che aveva tentato di mettere ordine nei principi della custodia cautelare. Il provvedimento era stato da subito ribattezzato “salvaladri” e i pm di Milano avevano sfilato davanti alle telecamere con le barbe lunghe e gli occhi arrossati minacciando dimissioni di massa. Il decreto non sarà riconvertito, ma quegli stessi magistrati che, dicevano, con quelle scarcerazioni non potevano più lavorare, non riarrestarono quasi più nessuno. La manette erano dunque così indispensabili?
La mattina del 22 novembre 1994 era stata anticipata da strani movimenti nei giorni precedenti, al quarto piano del palazzaccio di Milano. Numerosi cronisti avevano notato il passaggio di alti ufficiali dei carabinieri e un andirivieni di pm che scappavano via dai giornalisti con l’aria sorniona del gatto che si lecca i baffi dopo un buon pranzo. Quelli del Corriere sono stati più bravi degli altri? Mavalà. Certo, ci fu un cronista del quotidiano Avvenire che aveva qualche rapporto con ambienti in divisa e che ebbe l’intuizione (chiamiamola così) prima degli altri. Ma l’intrusione si risolse con la sua assunzione al primo quotidiano d’Italia. E lo scoop ebbe inizio, con troppi particolari perché si potesse sostenere che i cronisti non avevano in mano il pezzo di carta dell’invito a comparire. Qualche anno dopo lo confermò, gridandolo in faccia a Di Pietro durante una trasmissione tv, Sandro Sallusti, che era stato capocronista del Corriere. Da allora fu una slavina. I particolari dell’inchiesta, tutti i giorni, inonderanno ogni quotidiano, ogni televisione. Berlusconi apprenderà a mezzo stampa di essere indagato per una corruzione alla Guardia di Finanza, da cui sarà in seguito prosciolto. In seguito, appunto. Dopo che il suo governo sarà caduto.
È particolarmente urticante, anche a rileggere dopo tanti anni, quel che scrivevano nei giorni successivi i giornali sulla “riservatezza” dello loro fonti. Roba da ridere, per chi come me aveva frequentato quegli uffici e quei corridoi, a volte partecipando al banchetto. Sentite questa: «Borrelli si chiude nel suo ufficio. Davigo, Colombo e Greco continuano a marciare nei corridoi con documenti e cartelle sottobraccio: sorridono, si guardano intorno, passano oltre. Senza parlare». Senza parlare? Ahah. Ho dichiarato diverse volte pubblicamente che le notizie coperte dal segreto me le avevano sempre date i magistrati e nessuno mi ha mai smentito. Non potrebbero. Intanto ogni giorno, sempre più smarrito e arrabbiato, Berlusconi apprendeva che un po’ tutte le Procure italiane gli avevano messo gli occhi addosso, che a Palermo pensavano lui fosse il mandante delle stragi di mafia. Fin da allora, ma certe toghe c’erano già, da quelle parti. Il ribaltone era nell’aria.
Alla faccia di quello che avrebbe dovuto essere il controllore delle televisioni italiane, l’ultima parola sui media l’avevano sempre i procuratori. Ogni quotidiano, non solo il Corriere ma anche Repubblica, la Stampa e l’Unità erano i megafoni di Borrelli e i suoi sostituti. La loro parola era sempre d’oro. «Noi ci limitiamo ad applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale», sussurrava con voce flautata il procuratore capo. Tra virgolette. Ma quando le virgolette si chiudevano arrivava la polpa e si parlava di sedici interrogatori, di ampia documentazione di un sistema di conti bancari, e anche di una fiamma gialla in veste di pentito. Tutto falso, tutto inventato, perché Berlusconi verrà prosciolto. Dopo.
Ogni giorno leggevo i quotidiani, guardavo le firme sotto le indiscrezioni e riconoscevo le impronte digitali del magistrato che aveva cantato sotto ogni notizia. I matrimoni tra pm e cronisti erano sempre indissolubili. Il terreno ormai era arato. Ormai anche alcuni di coloro che parteciparono fin dalla semina – parlo di ex cronisti giudiziari – ammettono che senza la complicità della stampa probabilmente non ci sarebbero stati (per lo meno non in quelle dimensioni) né Tangentopoli, né la caccia a Craxi né la fine del primo governo Berlusconi. E anche, dice qualcuno, non sarebbe successo niente senza la violazione di qualche regola. Ma intanto la storia è andata avanti in quel modo tutto politico, pieno di complicità e di imbrogli. In cui i giornalisti sono stati solo i cicisbei di qualcuno che contava più di loro. Quanto al primo governo Berlusconi, il colpetto finale lo diede, nel suo discorso di Capodanno, Oscar Luigi Scalfaro. Il peggior Presidente della Repubblica italiana. Ma i mandanti erano altri.
(Fine 4 puntata – Continua)
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