Come nasce il carcere duro
Quando e perché è nato il 41 bis, il carcere duro contro cui la sinistra era contraria
“Queste modifiche all’ordinamento penitenziario”, cioè quelle che hanno introdotto l’articolo 41 bis, oltre a tutto in modo retroattivo, “sono gravissime”. Non lo ha detto l’anarchico Alfredo Cospito nel 2023, ma il comunista Ugo Pecchioli nel 1992. Non era certo un libertario, il compagno Ugo. Ma erano altri tempi. Quando la sinistra era sinistra, quando votava il bilancio dello Stato anche nel suo ruolo di principale partito dell’opposizione, quando il Pds, figlio del Pci, aveva un’identità politica e particolare attenzione alla società delle regole.
Oggi abbiamo l’esponente del Pd Deborah Serracchiani che, in una giusta polemica con Giovanni Donzelli che l’ha accusata di aver istigato alla lotta l’anarchico detenuto, rivendica con orgoglio il suo, e quello del suo partito, entusiasmo per l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Quello nato per impedire che il detenuto per reati gravi di mafia e terrorismo mantenga anche dalla cella rapporti con le organizzazioni criminali all’esterno e possa, in quanto boss riconosciuto, anche impartire ordini per la commissione di reati. Era nato come carcere impermeabile, l’articolo 41-bis, ma nel tempo, e soprattutto dopo che (sciaguratamente) il governo Berlusconi nel 2002 lo ha stabilizzato facendogli perdere per strada la natura di strumento emergenziale e provvisorio, è diventato carcere duro, il “carcere del carcere”.
L’isolamento quasi totale, un colloquio al mese con il vetro, due ore d’aria al giorno con non più di quattro persone, il blocco della corrispondenza, rischiano di portare la persona all’impazzimento, oltre a degradarla nel fisico. Perché l’assenza forzata di socialità fa ammalare e priva la persona del diritto alla salute. E questo dimostra anche la sua incostituzionalità. Non è un caso che l’articolo 41-bis sia stato introdotto nell’ordinamento penitenziario, dopo una grande stagione di riforme, sia pur nel clima emergenziale del 1992, in via transitoria. Il problema è che sia stato poi rinnovato ogni tre anni nel decennio successivo, fino a diventare organico all’ordinamento penitenziario come un macigno nel 2002.
Per capirne l’origine e le finalità, occorre fare un tuffo nella prima repubblica, nell’ultimo governo Andreotti e nei giorni successivi alla sentenza del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone con la decapitazione per via giudiziaria della cupola dei corleonesi, e poi l’omicidio mafioso di Salvo Lima. Il progetto di una legge che modificasse il processo penale e l’ordinamento penitenziario in direzione antiriformatrice è nato in quei giorni. C’era anche Falcone nella cabina di regia al ministero di giustizia. E il suo assassinio il 23 maggio fu quello che diede la svolta, che fece anche perdere un po’ la testa a quel governo. La durezza divenne violazione di norme costituzionali, la sicurezza divenne disumanità. Il decreto Scotti-Martelli, che prese il nome dei ministeri di interno e giustizia, interveniva sulle indagini preliminari, allungandone i tempi, sul regime della prova con la rinuncia alla piena formazione nell’aula dibattimentale nei processi di mafia, in totale stravolgimento della riforma del 1989 e del sistema accusatorio.
Nascevano quel giorno i reati “ostativi”, quelli che impedivano l’applicazione dei benefici previsti dalla riforma carceraria del 1975 e dalla legge Gozzini. E veniva introdotto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, il figlio cattivo del precedente articolo 90, che si applicava però solo in caso di sommosse o gravi situazioni di pericolo all’interno degli istituti penitenziari. Il decreto fu una bomba nel mondo della giustizia e delle carceri. I detenuti iniziarono un digiuno a rotazione limitandosi ad assumere acqua e si iscrissero in massa al Partito radicale. Documenti di protesta da parte dell’Associazione dei professori di procedura penale presieduta dal professor Conso, dell’Unione camere penali e della stessa Anm si ammonticchiavano sui tavoli dei ministri. Gli avvocati scesero subito in sciopero. Si buttava alle ortiche un’intera stagione di riforme. Il processo penale rischiava di perdere, con la logica del doppio binario nelle inchieste di mafia, la sua appartenenza al sistema accusatorio.
Ma il vero disastro immediato, soprattutto per l’applicazione retroattiva della norma, fu l’entrata in vigore, oltre che dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, dei reati ostativi. Furono ricondotti in carcere 240 ex detenuti che godevano già del regime di semilibertà. Persone che con la libertà avrebbero potuto distaccarsi dal dominio dei boss all’interno delle prigioni venivano riconsegnati all’antica appartenenza criminale. Altri che fruivano dei permessi di lavoro esterno vennero nuovamente rinchiusi nelle celle. Ogni permesso fu bloccato. Ci fu un invito esplicito a “pentirsi”, anche a chi, detenuto da moltissimi anni, non aveva ormai niente da raccontare ai magistrati sull’organizzazione cui era un tempo appartenuto.
Queste osservazioni, potrà parere strano per chi ha conosciuto il Pci e le successive evoluzioni fino all’odierno Pd, e anche per chi ha ascoltato la rivendicazione d’amore per il 41-bis della deputata Serracchiani, vennero esposte proprio dai comunisti di allora. In una conferenza stampa del 7 luglio 1992 il senatore Ugo Pecchioli e il deputato Massimo Brutti chiesero al governo di ritirare il decreto, a causa dello “stravolgimento del processo penale, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”. Una certa maretta del resto c’era anche tra i socialisti e nel mondo cattolico, i liberali e i radicali erano contrari e così anche Rifondazione. Al Senato si tennero audizioni su audizioni, nelle quali il decreto Scotti-Martelli non trovò estimatori. Anche perché, nonostante le condanne al maxiprocesso, eravamo ancora all’anno zero sulle attività di repressione e di intelligence per arrivare alla cattura di Totò Riina e degli altri boss latitanti. E le restrizioni sui processi e sui detenuti avevano il sapore della vendetta da parte di uno Stato che si rifaceva sui più deboli per la propria incapacità a catturare i capi. C’era una situazione di stallo, nella commissione giustizia del Senato.
Ma tutto il resto andava di corsa, le Camere votavano a rotta di collo sulle autorizzazioni a procedere sulle inchieste di Tangentopoli e intanto si toglieva la vita Renato Amorese, il primo di 41 suicidi. E Craxi teneva il suo primo discorso per denunciare l’esistenza di bilanci falsi nelle casseforti di tutti i partiti. A un certo punto il governo pensò di ritirare il decreto. Ma provvide la mafia, a togliere le castagne dal fuoco. Il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo fu assassinato il giudice Paolo Borsellino. Il 4 agosto il decreto era legge. Gli uomini del Pds tennero in tasca i loro discorsi di fuoco per la difesa dello Stato di diritto e si attennero a quelle di circostanza. Sembrava di essere a un funerale, quel giorno a Montecitorio.
Ma non possiamo mettere la parola fine a questa storia, non solo perché l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e anche una parte di quel deterioramento del processo penale sono ancora tra noi, ma perché da quel che successe in quei giorni è nata anche la favola della Trattativa dello Stato con la mafia. Chi c’era sa bene che nel governo Andreotti e nel successivo guidato da Giuliano Amato non c’erano i buoni e i cattivi nella lotta alla mafia. C’erano semplicemente una grande forza della mafia con le sue bombe e una grande debolezza dello Stato. Non è vero che il ministro Scotti era il “duro”, sostituito con Mancino, il morbido trattativista. Era semplicemente accaduto che, su iniziativa di Ciriaco De Mita, Scotti fosse promosso agli esteri e poi rimasto semplice parlamentare per propria scelta, perché nella fase del moralismo di tangentopoli, il suo partito, la Dc, aveva abolito il doppio incarico. E l’immunità era meglio di un ministero.
Nessun eroismo e nessuna punizione, quindi. Quanto a Claudio Martelli, semplicemente si dimise da guardasigilli dopo la telefonata in cui il procuratore Borrelli gli preannunciava l’invio di un’informazione di garanzia. Nessuno lo ha cacciato. Solo per questo arrivò Conso, non certo per dare una mano ai mafiosi. Lo stesso ragionamento vale per la direzione del Dap: Nicolò Amato era il morbido e Di Maggio il duro con suoi colloqui investigativi. Ma il pm Nino Di Matteo, nella sua requisitoria al “Processo Trattativa”, parlò dei due avvicendamenti naturali come di due cacciate, due siluri politici frutto della necessità di concretizzare il dialogo dello Stato con la mafia. Era una bufala e sappiamo come è andata a finire. Anche questo fa parte della storia del 41-bis.
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