Il caso Feltri-Boldrini
Quando il Manifesto censurò un articolo (e aveva ragione…)

Con un certo stupore il 27 novembre sulla prima pagina del manifesto ho visto un commento di Laura Boldrini che iniziava con «ringrazio il manifesto per la disponibilità a pubblicare l’intervento che avevo scritto in occasione della giornata del 25 novembre per il blog sull’Huffington post. Intervento che il direttore Mattia Feltri ha rifiutato di pubblicare per via di un riferimento critico a Vittorio Feltri, suo padre». Seguiva articolo. Sono rimasta stupita per almeno due ragioni. E anche una terza, sul contenuto.
La prima è che non mi pare in nessun caso elegante che un giornale si intrufoli, anche se sollecitato o un po’ costretto da antichi rapporti di vicinanza politica o magari anche di amicizia, in vicende conflittuali che riguardano un’altra testata. La seconda è che, per la conoscenza diretta, pur se un po’ datata, che ho del manifesto, della sua storia, di un certo suo rigore politico e anche morale, questo colonnino di Laura Boldrini, messo lì in prima pagina quasi fosse un trofeo, mi ha disturbato quasi fosse una macchia. E mi ha riportato alla memoria un evento che per noi giovani cronisti di allora fu passionale e drammatico. E che riguardava proprio, allora come oggi, un articolo non uscito su un quotidiano e inviato dall’autrice a un altro, che pubblicò. Sicuramente se ne ricorderà Norma Rangeri, la direttrice di oggi, e anche coloro che ancora sono lì o in altri giornali. Alcuni, purtroppo ci hanno lasciato.
Per raccontare per bene dovrei però fare il mio dovere di cronista, come mi ha insegnato il mio primo direttore Luigi Pintor. «Non dare mai niente per scontato», non è detto che tutti conoscano le puntate precedenti. Spiega sempre tutto. Non scriverò neppure «come è noto». Un altro direttore, Valentino Parlato, mi aveva ammonito: se è già noto è inutile scriverlo, diversamente non devi dire che è noto perché sarebbe una bugia. Userò però un trucco, spero mi perdoneranno i miei antichi direttori, che purtroppo non ci sono più. Voglio per prima cosa raccontare quel che successe al manifesto nel 1977 a Ida Farè.
Ida era una donna meravigliosa, bellissima, brillante, di grande intelligenza e generosità. Era architetta e docente al Politecnico di Milano. Era anche una grande scrittrice e giornalista, il suo libro più famoso, Mara e le altre, era dedicato a Mara Cagol, fondatrice delle Brigate rosse insieme a Renato Curcio, e alle donne che, non sempre in modo spontaneo, avevano scelto la lotta armata. Era arrivata al manifesto dal Quotidiano dei lavoratori in crisi. Non fu mai del tutto inserita, lei molto milanese, nel collettivo romano. La sua sensibilità la portava spesso a essere un passo in avanti, o di lato, o comunque oltre. Grande cuoca, aveva quattro figli e una casa con una grande cucina generosa e sempre piena di amici. Il 1977 fu un anno complicato, difficile da capire appieno persino per noi ex sessantottini. Indiani metropolitani, il problema della forza, le prime armi. Succedeva tutto a Bologna, e tutti andavano lì in una sorta di manifestazione continua, raccontata in diretta da Radio Alice. Un movimento tumultuoso, con risposte violente che sfociarono anche nell’uccisione dello studente Francesco Lo Russo, che inevitabilmente alzò il livello dello scontro.
Nelle riunioni di redazione del manifesto la discussione era continua. Soprattutto la generazione dei fondatori, quella di coloro che si erano fatti radiare dal Pci anche per difendere il movimento degli studenti del sessantotto, di fronte a qualcosa di così nuovo, creativo ma anche violento, non capiva. Ida invece sì, ne aveva colto più di altri la novità di una generazione che non era ideologica né colta come quella dei propri fratelli maggiori ma che pareva non avere futuro. A Milano, con un gruppo di femministe “storiche”, Ida e io avevamo messo in piedi la rivista Grattacielo, “occhi di donna sul mondo” in cui parlavamo liberamente anche di ciò che non si poteva dire, e ponevamo anche il problema delle armi, che ormai venivano viste in pugno a troppi compagni.
Ida Farè andò a Bologna e inviò il suo articolo alla redazione. L’articolo non fu pubblicato (il manifesto era diretto da un triunvirato, Castellina, Rossanda e Parlato) e lei lo mandò a Lotta Continua, dove uscì il giorno seguente. Fu processata per due giorni di fila, in una sorta di drammatica assemblea permanente. L’aggettivo “drammatica” non è eccessivo. Erano tempi così e il nostro prima che un giornale era un collettivo, una famiglia. Con tutte le emozioni e i sentimenti forti di una famiglia. Ida Farè fu difesa solo da me e dal bolognese Stefano Bonilli, che parlammo in singhiozzi, spiegando e condividendo le sue ragioni. Il resto della redazione fu implacabile. C’era anche Norma Rangeri, che oggi dirige il manifesto. Mi colpì l’intervento di Lucia Annunziata, l’unica che riuscì a scalfire le mie certezze. Mi domando, Ida, le disse, per quale motivo tu ritieni che il tuo scritto sia così importante da dover essere per forza pubblicato, a tutti i costi e dovunque. Ida presentò le proprie dimissioni e Rossanda in persona la ringraziò. Tutti, o quasi, tirarono in sospiro di sollievo.
Oggi, vedendo il tutto da lontano nel tempo, oggi che Ida non c’è più da due anni (e anche Stefano Bonilli, che con me aveva portato il garantismo al manifesto, se ne è andato da qualche anno), penso che Lucia avesse ragione. E che nessuno abbia il diritto di ritenere così fondamentale il proprio scritto fino al punto di sfregiare una comunità, e anche un direttore, sì un direttore, mettendo ambedue in contraddizione con altri che si prestano. E che non fanno una bella figura. Non la fece allora Lotta Continua e non la fa oggi il manifesto. A Laura Boldrini chiedo: sei così sicura che il tuo pensiero fosse fondamentale?
Ora il mio dovere. Breve riepilogo di quel che è accaduto prima dello scorso 27 novembre, l’antefatto della pistola fumante. L’ex presidente della Camera aveva scritto un commento per ricordare la giornata del 25 contro la violenza sulle donne e l’aveva inviato al suo blog sull’Huff. Un articolo con argomenti così scontati da far sorgere il dubbio che la finalità vera fosse quella di mettere in imbarazzo il direttore Mattia Feltri con un attacco a suo padre Vittorio, accusato di sessismo e di misoginia, con una sottolineatura sul fatto che la misoginia sarebbe l’anticamera della violenza, dello stupro. Inutilmente pesante e provocatorio.
Non ritornerò sull’articolo di Vittorio Feltri a commento delle torture documentate dal video (purtroppo ho anche letto le carte e non ci ho dormito la notte) compiute da un imprenditore milanese per venti ore su una ragazzina ridotta a “bambola di pezza”. Ne ha già scritto Piero Sansonetti e condivido. Ma sulla maleducazione e la violenza con cui Laura Boldrini ha voluto colpire un direttore-figlio, persona per bene come Mattia Feltri, ho molto da dire. A proposito di violenza. Sappiamo come prendere la mira, noi donne, quando vogliamo essere cattive, sappiamo anche usare i colpi bassi. Il direttore dell’Huffington Post le aveva telefonato, chiedendole solo di togliere quella frase su suo padre. Lo aveva fatto con sincerità, esponendosi. Perché Mattia Feltri è fatto così. Laura Boldrini ha minacciato di denunciare di esser stata censurata. Perché anche lei è fatta così. La nota stonata è però la pubblicazione da parte del manifesto. Chissà se Norma di ricorda di Ida.
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