L’ultimo libro di Giorgio Agamben non è propriamente un saggio filosofico: è un insieme di appunti, brevi considerazioni; quei pensieri balenanti nell’animo che noi tutti scriviamo a volte su un pezzo di carta nella speranza di sottrarli all’oblio. C’è un tema unificatore in Quando la casa brucia (Giometti & Antonello, pp. 96, euro 10)? Sicuramente, così come c’è un identico stato d’animo, una Stimmung direbbero i tedeschi, che l’attraversa tutto. Il tono è fra il rimpianto e la nostalgia di un mondo in cui si abitava, di una civiltà che faceva stare come a casa propria. Quella casa non è semplicemente stata rasa al suolo, ma è in preda alle fiamme: brucia e, mentre il fuoco divampa lasciando qualche fugace traccia di quel che prima era integro, gli abitanti di quella casa si illudono ancora che con qualche tecnica mirabolante, con qualche diavoleria digitale, il fuoco possa essere spento. Mentre è proprio quella diavoleria l’immateriale combustibile che alimenta l’incendio.

La casa è ovviamente l’Occidente, nel momento della sua crisi apicale. E dico apicale perché essa era presente fin dalla sua origine: il fuoco aveva già iniziato la sua opera distruttiva secoli fa, ed ha agito sempre nella perfetta inconsapevolezza e indifferenza di chi trovava rifugio (in tutti i sensi) fra quelle mura. Ecco, allora, che dietro ogni riflessione contenuta in questo piccolo e prezioso libro, anche la più apparentemente marginale o lontana dal centro, fa capolino tutta intera la personalità, e quindi la filosofia, dell’autore. E anche l’attualità più immediata della pandemia e del governo di essa. Perché l’apice, a cui ci si era approssimati, è proprio qui, ora. «Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo. Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono».

E ancora: «Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente. La mobilitazione totale nella quale Jünger vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva. Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla. Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri». Queste parole spazzano via in un sol colpo, con la forza del pensiero radicale (che va alle radici, cioè della filosofia), ogni dotta discussione sul rapporto gerarchico che si stabilirebbe fra salute e liberà, cioè umanità. La semplice salute biologica non è la salute dell’uomo, almeno non dell’uomo non ridotto a cosa, dell’uomo libero. E questa più piena e integrale natura umana, che i positivismi e i “naturalismi” non potranno mai afferrare, si esprime nella socialità, nella convivialità, nel “toccare”, non nel “distanziamento” e nell’isolamento.

Ne siamo almeno consapevoli? E si esprime poi nel Volto, che in una civiltà vera, cioè conscia del suo lato d’ombra e del suo doppio, veniva mascherato, oltre che a teatro, solo in quella sorta di liberatoria e profonda “vacanza dello spirito” che era il carnevale. «Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto».

E quest’ultima affermazione mette in scacco anche la tesi, uguale e contraria, dei complottisti e dei pensatori dilettanti che individuano in un centro cosciente e attivo l’artefice di una “dittatura sanitocratica”. Il Potere non ha oggi quel centro, ma emerge dai fatti: è inafferrabile e senza volto perché tutti contribuiamo a costituirlo, e perciò è pervasivo e invincibile. Potrà un Dio salvarci?