“Una legge, la cui approvazione è consigliata dai 300mila moschetti dell’esercito di dio e del suo nuovo profeta, non può essere che la legge di tutte le paure e di tutte le viltà. Quindi non sarà mai una legge”. Lo dice Filippo Turati alla Camera il 15 luglio 1923, parlando della riforma Acerbo, un proporzionale con premio di maggioranza imposto dal fascismo. Due anni prima, quando ancora su Roma non c’era stata alcuna marcia, il suo giovane compagno Giacomo Matteotti, 36 anni, sempre alla Camera definisce le camicie nere “bande di criminali”. Quelli gli urlano di tacere e di “non ingiuriare”. “Credevo che ricordare ai professionisti la loro professione non fosse un’ingiuria”, replica lui. Turati e Matteotti. Due generazioni e due temperamenti molto diversi: Giacomo, soprannominato “Tempesta” dai suoi compagni, è visto da Filippo con una sorta di paternalismo un po’ insofferente. Entrambi, però, hanno capito tutto, anche se ancora non sanno nulla. Non possono immaginare che una manciata di mesi dopo, il 6 aprile 1924, 100 anni fa, i presagi più funesti sarebbero stati travolti da elezioni pilotate da una violenza estrema. Votano circa 7 milioni e mezzo di italiani, tutti rigorosamente di sesso maschile, e i risultati sono “putiniani”, come diremmo ora: alla Lista Nazionale dei fascisti il 60 per cento dei voti, più un altro 5 per cento alla Lista nazionale bis, e tutti eletti grazie al premio di maggioranza.

Il precipizio della fragile democrazia italiana è ormai chiaro. Ma a raccontarlo al paese, al mondo e alla Storia è sempre Giacomo Matteotti, alla Camera il 30 maggio 1924. Subito dopo dice ai suoi compagni: il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate la mia orazione funebre. Viene ucciso pochi giorni dopo per un ordine di Mussolini alla sua polizia segreta: “Perché Matteotti gira ancora? Cosa fa Dumini?” Amerigo Dumini è un reduce fiorentino che si presenta così: “Piacere, Dumini, nove omicidi”. Dopo il delitto Matteotti, sarà a lungo protetto dal regime perché sapeva troppo. Giacomo Matteotti è un socialista dei primi decenni del ‘900. Viene dal Polesine, basso Veneto che abbraccia l’Emilia, terra oggi fiorente, ieri derelitta. In un’inchiesta del tempo, le case del Polesine sono definite “tane e topaie” dove “si piange la vacca morta e ci si rassegna per la moglie perduta”. Giacomo costruisce lì la sua indomabile passione politica. Il suo socialismo è fatto di rapporti stretti e fraterni con le persone, i contadini soprattutto, cui non offre astrazioni o protezioni ma istruzione. Per lui il riscatto degli ultimi parte dalla conoscenza. Giacomo attraversa la sua breve vita senza fermarsi mai. Vive l’ascesa del Partito Socialista e poi la sua rovina, dovuta al martellamento dei massimalisti e dei filo-comunisti, quelli che volevano “fare come in Russia”. Tra i massimalisti c’è un maestro di scuola molto abile nell’oratoria, Benito Mussolini. Al congresso provinciale socialista di Rovigo del 1914 i due si scontrano, ma prevale la mozione Mussolini, all’epoca direttore de “L’Avanti!”.

Quando l’Italia inizia ad accartocciarsi nella crisi della democrazia parlamentare, Matteotti fa la spola fra la Roma, in cui dal 1919 è deputato, e la sua terra. E viaggia molto, per tenere uniti i suoi compagni, per non far morire la speranza. Ci mette la faccia, sempre, e così la sua faccia per i fascisti diventa un simbolo da colpire. Il deputato socialista è aggredito a Siena, a Cefalù, persino nella sua Rovigo: lo sequestrano e lo picchiano prima di abbandonarlo in campagna minacciandolo di morte se fosse tornato in Polesine. Lui naturalmente ci torna. Nello stesso tempo, Matteotti rifiuta ogni intesa con i comunisti. A Palmiro Togliatti, che gli propone un accordo per creare un “fronte unico di opposizione proletaria al fascismo”, a patto però di escludere ogni ritorno alla democrazia, Matteotti risponde sdegnato che la proposta è irricevibile, perché i comunisti hanno la responsabilità di avere “diviso e indebolito il proletariato italiano nei momenti di più grave oppressione e pericolo”. Quando interviene alla Camera il 30 maggio 1924, Matteotti parla a braccio e descrive elezioni segnate da intimidazioni e minacce da parte della “milizia armata” al servizio del capo del governo. Partono gli schiamazzi, le interruzioni, gli insulti. I deputati fascisti scendono dall’emiciclo. Solo il vecchio Filippo Turati lo difende. Verrà eliminato pochi giorni dopo, il 10 giugno pomeriggio, dai sicari che lo aspettavano in auto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia. Lo aggrediscono, lui si difende, getta per terra il suo tesserino da deputato sperando che qualcuno lo possa aiutare.

Ma i suoi assassini lo tramortiscono, e poi, nell’auto che riparte a tutta birra verso Ponte Milvio, lo finiscono con due coltellate. Matteotti ha 39 anni, e il suo corpo verrà trovato solo in agosto nelle campagne romane. Quando l’assassinio è compiuto, Mussolini vive alcuni tempi difficili. L’Italia è piegata dalla viltà della monarchia e della chiesa, dalla debolezza congenita dei partiti parlamentari che se vanno pure sull’Aventino, dal massimalismo di tanti rivoluzionari a parole. Ma uccidere un deputato nel centro di Roma resta un atto avventato che rischia di rianimare la democrazia moribonda. È solo un fuoco di paglia. Solo per dirne una, il Papa non accetta neppure di incontrare la madre e la moglie di Giacomo. Non appena il Duce comprende che quella reazione è sterile, fiacca, domabile, va alla Camera dei Deputati e pronuncia il famoso discorso in cui si assume la responsabilità dell’omicidio Matteotti. “Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda; se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vivissimi e prolungati applausi — Molte voci: Tutti con voi!)”. È il 3 gennaio 1925.

Il confronto fra queste parole e l’ultimo discorso di Giacomo Matteotti è abbagliante: “Se la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza… Voi volete ricacciarci indietro…”. Nel 1925, quando sono finiti sia Matteotti sia la libertà, Turati dice che “Giacomo Matteotti fu, di noi tutti, il più giovine, il più prode, il più degno”. Il comunista Antonio Gramsci, invece, definisce il giovane politico appena assassinato “un pellegrino del nulla”, cioè un predicatore fallito come tutti coloro che avevano preferito il riformismo alla rivoluzione. Intanto, il fascismo comincia la sua epopea. Ogni voce si spegne. Sessant’anni dopo la sua Unità, l’Italia entra nel buio di una regressione senza fine, che quel ragazzo figlio di un commerciante aveva combattuto con la sua limpidezza d’animo, in una vita lontana da tutto ciò che non fosse il suo ideale. Lontano, sempre, persino da sua moglie Velia, che però, di fronte a minacce e percosse, seppe dirgli: “Arrivato a questo punto non ti è ammessa alcuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita”.

Sergio Talamo

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