Marco Follini su un punto ha ragione. La Dc ha poco a che fare con il populismo verso cui invece strizzano l’occhio Franceschini o Letta. Estranei al populismo erano anche gli altri grandi partiti dell’Italia repubblicana. Forse i liberali avevano una qualche debolezza verso Giannini ma solo perché il commediografo aggrediva un loro antico nemico (di Croce, di Mosca, di Orlando), il partito burocratico di massa con il professionismo politico. È chiaro che la democrazia dei partiti costituiva in sé l’antitesi “tecnica” al populismo. Solo quando declinano i partiti storici e cade la “mediazione” politica comincia il tempo lungo del populismo.

Poiché non si dà un assoluto punto zero nei processi politici, deve esserci stato nella vicenda dei due principali protagonisti del bipartitismo imperfetto qualcosa che ha lasciato incuneare nel loro corpo il momento populista. E questa congiunzione, che dai partiti di integrazione di classe conduce alla egemonia dell’antipolitica, chiama in causa il modo con cui Dc e Pci-Pds hanno gestito (con il congedo dalle categorie istituzionali di Togliatti e di De Gasperi ispirate ad una “democrazia mediata”) la transizione italiana dei primi anni ’90. Il mito politico del passaggio “dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini” è nato nel cuore della cultura cattolica. Con sofferenza lo stesso Scoppola che coniò l’immagine avvertirà presto i rischi involutivi della sua formula-manifesto che in effetti si prestava a fughe mitologiche. La società civile divenne all’istante il canone legittimante del nuovissimo partito azienda che occupava lo Stato e l’elettore, dopo aver riconquistato lo scettro usurpato dai partiti, divenne nel tempo “il cittadino punto e basta” cantato nell’inno del finto ribellismo grillino contro la casta.

Il movimento referendario che, parole di Segni, intendeva «dare un calcio al culo della partitocrazia» (è proprio il dc conservatore il vero inventore del “vaffa day”), la Rete con la mobilitazione etica contro lo Stato raffigurato come opaco livello del compromesso con la mafia stragista-imprenditrice, sono costole del partito-Stato che nella crisi dell’ordinamento invocano il nuovo inizio, i riti purificatori della discontinuità, la semplificazione moraleggiante della grammatica del sospetto. Il movimento referendario (che impone il rifiuto pregiudiziale di ogni riforma istituzionale incrementale gestita dal parlamento “degli inquisiti”) e il giustizialismo (che rigetta ogni risposta di sistema alla demolizione togata dei partiti) sono gli antecedenti storico-culturali del populismo trionfante. Nati nelle casematte del cattolicesimo democratico, e sorrette in gran spolvero dal partito di Repubblica, il nuovismo e il giustizialismo garantirono una identità ritrovata per il post-Pci smarrito in una confusa lotta contro il regime dei partiti, il consociativismo, la democrazia bloccata.

La soluzione politica a tangentopoli venne rifiutata dinanzi alla insubordinazione delle toghe accorse sul Piave, alla indignazione del popolo dei fax. E il “procurattore”, che inveiva contro Forlani o Craxi rivolgendosi direttamente alle telecamere presenti in aula per la diretta video, proprio quando era caduto in disgrazia venne recuperato e, poco contavano le sue simpatie per il Msi, accompagnato a correre nella tranquilla pista rossa del Mugello. Altri tasselli della cultura dei cattolici democratici degli anni ’90 erano quelli della democrazia immediata (elezione diretta della carica monocratica con premi di maggioranza alla coalizione per sapere la sera stessa dello scrutinio il volto del vincitore), della ostilità alla forma partito (l’Asinello era proprio il simbolo del maltrattamento da riservare alla politica organizzata che aveva osato esiliare il padre dell’Ulivo ai vertici dell’Europa). Questa mitologia della disintermediazione e del partito-cartello elettorale sfonda senza alcuna resistenza a sinistra dove si afferma l’obsolescenza del partito di iscritti e di sezioni per inseguire il cittadino delle primarie che si presenta nei gazebo dove uno vale uno (principio metafisico seguito pure nelle candidature di Veltroni nel 2008).

Se la “mediazione” è il bersaglio principale del populismo, è evidente che tracce di populismo sono ravvisabili nella cultura politica in età declinante della Dc e del Pds che sono stati senza colpi ferire sedotti dalla fascinazione ulivista, dai non-statuti, dai non-congressi, dalle non-identità, del non-radicamento nei conflitti di classe. La simpatia con cui questi ambienti (e persino figure come Bersani, D’Alema, Orlando) guardano ai grillini, anche dopo la loro disvelatrice esperienza di governo con Salvini, si giustifica solo con il populismo dormiente che dagli anni ’90 è depositato nel cervello annebbiato del Pds e della Margherita. Nella battaglia di potere (non certo di idee, di progettualità organizzativa) tra ex Ds ed ex Margherita ha vinto largamente quest’ultima che esprime il capo dello Stato, il presidente del parlamento europeo, il commissario europeo, il segretario del Pd e i leader dei suoi oppositori interni o dei suoi competitori esterni. Non c’è più contesa, il metapartito democristiano, erede di quella Dc smarrita e minore che negli anni ’90 da partito-istituzione si converte in un partito-movimento, ha stracciato i rivali che hanno ormai gettato la spugna per carenza di cultura politica.

Accade come nei Paesi dell’est, dove quasi tutti i protagonisti della transizione democratica vengono (persino Orban) dal partito unico. Ciò non significa che sia tornato il comunismo. Lo stesso vale per l’Italia. Sono tutti figli della Dc i politici di successo (nei palazzi, non nella società che anzi potrebbe avvertire il vuoto di sinistra) ma da ciò non si deve inferire che sia ricostituita la vecchia balena bianca, che nei suoi molteplici residui odierni è solo un metapartito come furono i liberali (che divennero partito solo a dieci giorni dalla marcia su Roma). E anche Follini dovrebbe smettere di sognare lo scudo crociato come un partito e consolarsi dinanzi alla ancora più triste sorte degli eredi di Gramsci che non hanno neppure un metapartito e tocca loro convivere con la pura disperazione politica nell’età parrocchiale dell’anima e del cacciavite.