Quanti comuni sono stati sciolti per mafia in Italia

Lo scorso 26 agosto il Consiglio dei Ministri ha deliberato il commissariamento per infiltrazioni mafiose di tre comuni calabresi – Rosarno, Nocera Terinese e Simeri Crichi – raggiungendo il ragguardevole risultato di 11 consigli comunali sciolti dall’inizio dell’anno. Da quando, nel 1991, questo strumento “eccezionale” di contrasto alla criminalità organizzata è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano, sono stati ben 362 i decreti di scioglimento per mafia di un ente. In base a quanto emerge dalle accurate statistiche pubblicate sul sito dell’associazione antimafia Avviso Pubblico, sino a oggi solo 23 di questi decreti sono stati annullati dai giudici amministrativi. Si tratta di un dato impressionante, che molti utilizzano come riprova della validità e dell’efficienza dell’istituto disciplinato dall’art. 143 del Testo Unico degli Enti Locali.

In realtà, l’analisi delle numerose decisioni adottate dai Tribunali Amministrativi Regionali e dal Consiglio di Stato consente di comprendere come l’esito dei giudizi risulti fortemente influenzato da due fattori: da un lato, l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli organi governativi nel valutare la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento; dall’altro, la forte limitazione del diritto di difesa che subiscono le Amministrazioni “sciolte”, stante la sostanziale impossibilità di effettuare accertamenti circa la fondatezza, nel merito, degli elementi indiziari che sorreggono il decreto dissolutorio. Con riferimento ai presupposti, è acclarato che, per sottoporre un Comune a commissariamento, non occorre che si accertino effettive infiltrazioni o concreti tentativi di condizionamento dell’azione amministrativa da parte della criminalità organizzata. Tanto il Ministero dell’Interno quanto la unanime giurisprudenza amministrativa ritengono, difatti, che la misura dello scioglimento abbia “natura preventiva” e, quindi, possa essere utilizzata ogni qualvolta appaia “più probabile che non” che un ente locale sia stato “infiltrato” o corra il pericolo di essere “condizionato” dalle mafie.

Diversamente da quanto si è portati a credere a causa di eccessive semplificazioni giornalistiche, è raro che un Comune venga sciolto perché sono state riscontrate vere e proprie infiltrazioni mafiose all’interno del Consiglio Comunale o della Giunta. Ciò in quanto, secondo il Consiglio di Stato, “l’accertata e notoria diffusione nel territorio della criminalità organizzata e le precarie condizioni di funzionalità dell’ente si configurano come condizioni necessarie e sufficienti per disporre lo scioglimento del Consiglio Comunale”. Ma non basta. Perché alla grande discrezionalità di cui gode il Ministero dell’Interno nella individuazione delle situazioni sintomatiche del pericolo di “infiltrazione” o di “condizionamento”, si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo che, secondo la tesi ormai maggioritaria, non può estendersi oltre il profilo della logicità delle valutazioni che sorreggono il decreto di scioglimento.

Peraltro, se ormai anche soltanto “un atteggiamento di debolezza, omissione di vigilanza e controllo, incapacità di gestione della macchina amministrativa da parte degli organi politici, che sia stato idoneo a beneficiare soggetti riconducibili ad ambienti controindicati”, viene considerato valido motivo di scioglimento di un Consiglio Comunale, non può sorprendere l’incredibile incremento dei commissariamenti registrato nel corso degli ultimi anni (ben 166 dal 2010 ad oggi), né l’esistenza di decine di enti già sciolti due o tre volte, come appunto il Comune di Rosarno, con il non invidiabile record detenuto dal Comune di Marano di Napoli, che nello scorso mese di luglio ha visto la terna commissariale insediarsi per la quarta volta.

E il fatto che, secondo i giudici amministrativi, la “ragionevole conclusione di un più che probabile condizionamento mafioso” possa essere raggiunta dal Ministero dell’Interno “anche a discapito della volontà, e del contributo, dei singoli amministratori”, e vi sia la possibilità di dare peso anche “a situazioni non traducibili in addebiti personali, potendo rilevare, ai fini dello scioglimento, i semplici vincoli di parentela o di affinità, i rapporti di amicizia o di affari e le notorie frequentazioni”, consente di comprendere come, in molte occasioni, il commissariamento di un Comune sia vissuto come ingiusto non solo dai diretti destinatari del provvedimento ma anche dalla stessa cittadinanza.

D’altro canto, a fronte della mancanza di un effettivo contraddittorio nella fase istruttoria e della segnalata compressione del diritto di difesa in quella processuale, non appare affatto rassicurante il principio recentemente enunciato dal Consiglio di Stato secondo cui, trattandosi di provvedimento disposto con “decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’interno, formulata con apposita relazione di cui forma parte integrante quella inizialmente elaborata dal prefetto, è lo stesso livello istituzionale degli organi competenti ad adottare il decreto di scioglimento a garantire l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti.” Quanto tutto ciò sia conforme ai principi costituzionali e alle regole dello Stato di Diritto è davvero difficile da comprendere.