Il ministro per la Funzione pubblica, Paolo Zangrillo, lo ha ripetuto pochi giorni fa: “La nostra vera grande sfida è quella di essere capaci di attrarre nuove professionalità nella Pubblica amministrazione e dobbiamo essere attrattivi soprattutto verso le nuove generazioni, che ci consentono di accelerare il processo di modernizzazione della Pa”. Proposito che risuona da anni nelle stanze di Palazzo Vidoni, dai tempi di Renato Brunetta e forse ancor prima.

Quanto paga la PA

Ma le buone intenzioni finiscono per lastricare le strade che conosciamo. Anche perché, per attrarre i giovani – almeno quelli che dovrebbero essere una risorsa per il paese, cioè quelli che sono più sensibili al richiamo dell’estero che del posto fisso – la questione riguarda il merito. E il merito, presto o tardi, deve trovare un riconoscimento oggettivo nelle soglie di retribuzione. Intendiamoci, la Pubblica amministrazione non paga poco. Secondo una recente indagine di due accademici per la Voce.info emerge con chiarezza che “i redditi annuali medi sono decisamente più elevati nel pubblico rispetto al privato, in media di circa 10mila euro. Ciò non è dovuto a differenze nei salari settimanali, che sono piuttosto simili tra pubblico e privato se si controlla per l’età del lavoratore (di quasi 10 anni in media superiore nel pubblico), quanto a una maggiore stabilità occupazionale fornita dal datore di lavoro pubblico, in media circa 10 settimane lavorate in più all’anno”. La convenienza economica tra pubblico e privato – ci si poteva scommettere – è più sensibile al Sud che al Nord, più per la scarsità di offerta privata (nelle province del Sud i lavoratori del pubblico hanno fino all’80% di settimane lavorate in più rispetto al privato) che per la qualità dell’offerta pubblica. Insomma, nulla a che vedere con il merito, con la competenza e con la responsabilità esercitata.

Le diverse buste paga

Una considerazione che si ritrova anche nella forte disparità che c’è tra la remunerazione nelle diverse Pubbliche amministrazioni. A torto si parla spesso di Pa al singolare, e si dovrebbe parlare di Pa al plurale: gli enti locali non sono uguali ai ministeri, la sanità non è uguale alla scuola o alle forze armate. Da una recente indagine del Sole-24 Ore emerge che i dipendenti pubblici (non dirigenti) applicati alle authority (una pattuglia di poco più di duemila persone, distribuite in otto realtà che vanno dall’Anac all’Agcom, dall’Arera all’Autorità dei trasporti fino alla Consob e al Garante della Privacy) guadagnano più di 100mila euro l’anno. In dieci anni un incremento salariale del 41%. Saranno tutti bravissimi, ma perché prendono il triplo di un segretario comunale che in un piccolo Comune si trova a dover affrontare il nuovo Codice degli appalti e la quotidiana lotta con una normativa barocca e pletorica? Non è l’unica disparità: l’impiegato della Presidenza del Consiglio (circa 1.800 dipendenti) ha una busta paga di 62mila euro lordi, quasi il doppio di quello che percepisce un suo collega ministeriale.

Potrei aggiungere che sia l’Inps che l’Agenzia delle Entrate – per conoscenza diretta delle situazioni, almeno fino a qualche anno fa – sono da sempre considerate due Pa appetibili per i livelli retributivi. Il centro (Enti nazionali, authority, ministeri) vince sulla periferia (Enti locali, Regioni, Asl). A prescindere dalla qualità dell’impegno e dalla responsabilità richiesta. Una situazione che non si spiega con ragionamenti comprensibili, e che certamente non consente di guardare alla Pubblica amministrazione (singolare o plurale che sia) come a un datore di lavoro lineare, trasparente e in grado di predisporre adeguati percorsi di carriera, che sono invece le richieste più frequenti da parte dei tanti giovani di qualità che crescono nel nostro Paese.

Le retribuzioni più basse

La regola è semplice, e non attiene alle responsabilità e alle competenze: più ci si allontana dal centro, più si abbassano le retribuzioni. In dieci anni le buste paga di Regioni ed Enti locali hanno perso più del 5% del loro valore reale; poco meno per i dirigenti della sanità: -4,6%. In questo orizzonte sembra persino un po’ lunare quando ci si chiede del rapporto tra PA e IA. Intelligenza artificiale e Pubblica Amministrazione – per qualche detrattore della seconda – potrebbero essere un ossimoro: interrogarsi sull’impatto della prima nel lavoro pubblico ha senso come argomento di convegno o di prassi lavorativa? Meritoria l’indagine condotta da FPA, proprio in questi giorni, secondo cui il 57% dei circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici è altamente esposto all’IA.

Al contrario, il 28% è moderatamente impattato e il solo 15% subisce un’influenza minima o nulla. Tra coloro che sono altamente esposti, una significativa maggioranza beneficerà di un’integrazione dell’IA nella propria attività lavorativa, evidenziando una profonda sinergia tra competenze umane e capacità offerte dall’IA. Ma sarà sempre troppo tardi quando l’intelligenza “non artificiale” dei dipendenti pubblici potrà essere un elemento di effettiva valutazione di merito e quindi di rilevanza retributiva.

Antonio Mastrapasqua

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