Il 29 aprile di quarant’anni fa moriva Alfred Hitchcock (1899-1980). Le narrazioni correnti esauriscono la sua figura in quella del sublime maestro del brivido, del geniale architetto della suspense, del tecnico perfetto. Questa visione si deve in larga parte alle incrostazioni cinefile delle quali inevitabilmente rimane prigioniero, che saturano l’analisi critica di stucchevoli derive aneddotiche. Ma se provassimo a inquadrarlo meno accidentalmente nella temperie culturale in cui si è formato – quella delle grandi rivoluzioni estetiche degli anni Venti – scopriremmo in lui un cineasta diverso.

Quel suo scritto del 1927 che auspicava un possibile film dedicato alla pioggia, una sorta di equivalente cinematografico di Jardins sous la pluie di Debussy, o che ammirava certi «studi filmici di cubi e di cerchi che cambiano forma allorché si muovono ritmicamente sullo schermo, come un quadro cubista in movimento» non era, come si crede, il parto di una fascinazione giovanile, ma l’espressione di una tendenza costante della sua intera carriera. Scopriremmo dunque in lui non soltanto un regista straordinariamente colto ma un vero e proprio cineasta d’avanguardia, a dispetto del contesto commerciale in cui ha sempre operato.

È noto che la chiave di lettura per accostarsi alla poetica di Hitchcock è il tema del cinema puro. Ma questo tema – nell’accezione in cui lui lo intende – non è una prerogativa esclusiva della sua opera, ma piuttosto una categoria ideale e trasversale che, dopo essere giunta a maturazione a partire dagli anni Venti, informa di sé autori diversi: da Pudovkin, a Lang, a Bresson, a Clouzot. Una categoria che si trova al centro di una fittissima rete di influenze, attraversa le avanguardie storiche e cinematografiche e si nutre di suggestioni pittoriche, letterarie, musicali.
Per capire il cinema puro dovremmo innanzi tutto ripensare il ruolo del regista.

Nei nostri tempi si è andata affermando sempre più chiaramente una visione collaborativa della creazione filmica, nella quale i contributi individuali del cast e della troupe conquistano uno spazio crescente. Nel cinema puro, anche se in misura variabile a seconda dei contesti, tutto ciò ha un peso considerevolmente inferiore. Proprio come lo spirito dell’avanguardia pone l’accento sulla creazione soggettiva contro il potere massificante della razionalizzazione sociale, così questo tipo di cinema considera il film come l’opera di un unico autore-artista.

Ciò trova espressione in un ben preciso approccio alla regia cinematografica. Alla tecnica del “master-campo-controcampo”, l’abitudine cioè di coprire l’intera scena con le stesse inquadrature intrecciate l’una con l’altra, il cinema puro contrappone un’idea di film come composizione e giustapposizione. È il “montaggio costruttivo” di Pudovkin o la “scrittura di immagini e suoni” di Bresson: la macchina da presa gira solo ciò che serve e solo per brevi frammenti. Il Kandinskij teorico che attribuisce a ciascun colore una precisa valenza e alla giustapposizione tra i colori un preciso effetto respira un clima culturale non dissimile da quello che indurrà Hitchcock a frammentare la scena della doccia in Psycho (1960) o le scene degli attacchi ne Gli Uccelli (1963). È sì il découpage classico di Griffith, ma ulteriormente privato di qualsiasi programmaticità o approccio formulare.

In un tipo di cinema così improntato alla costruzione non è la macchina da presa a dover inseguire la realtà, ma è la realtà a doversi adattare alla macchina da presa. Se un attore non è abbastanza alto sarà quest’ultimo a dover salire su un paio di pedanine, non la macchina da presa a doversi abbassare; tutto ciò che è davanti all’obiettivo dovrà obbedire alle esigenze della macchina da presa, non determinarle. Ciò condiziona notevolmente la funzione della recitazione. Da soggetto attivo l’attore si trasforma in creta nelle mani del regista, a tal punto che Hitchcock usava talvolta le sue stesse mani per plasmare l’espressione facciale dei suoi interpreti.

Non si deve intendere tutto questo come una forma di prevaricazione: in una concezione del cinema che partecipa intimamente dello spirito dell’avanguardia l’attore può assumere la stessa funzione assunta dal modello per il pittore.
C’è poi – ed è ovviamente un’eredità di Murnau – una forte propensione al trattamento soggettivo, incarnato idealmente da La finestra sul cortile (1954). Si tratta di qualcosa di diverso dal mostrare banalmente quello che vede un personaggio alla maniera di Una donna nel lago (1947) di Montgomery, che Hitchcock disprezzava. È piuttosto un invito alla totale immedesimazione, un rifiuto della narrazione neutrale. Bresson dal canto suo lo spiegava così: «I suoni vengono uditi da un singolo orecchio e le cose sono viste da un singolo occhio. Ecco cosa dà al film la sua unità».
Il cinema puro è anche fortemente coreografico, affine al balletto (come Scorsese diceva di Hitchcock).

Gli attori si muovono non solo nelle inquadrature ma soprattutto tra le inquadrature: le entrate e le uscite di campo diventano particolarmente essenziali, – si pensi alla scena finale sul Monte Rushmore in Intrigo internazionale (1959) – le inquadrature e i loro rapporti rivelano una precisione matematica. E ovviamente un’importanza vitale rivestono i ritmi e la musicalità del montaggio: il film si trasforma in una vera partitura musicale. Un cinema dunque di forme, ma profondamente ostile al virtuosismo e all’improvvisazione. Come Schönberg ci insegna, infatti, allo spirito dell’avanguardia non è aliena una certa attitudine alla normatività e alla regolamentazione. Ed è sempre all’avanguardia che va riferita la polemica di questo cinema verso il contenutismo dell’arte borghese, verso i messaggi edificanti e anche verso un certo engagement.

Il macabro hitchcockiano è in fondo una critica al perbenismo della società amministrata, all’ipocrisia del mondo benpensante. Per questo Hitchcock non si trova a suo agio con il cronachismo e gli eccessi descrittivi che proprio dell’arte borghese sono l’espressione. Quando cerca di infondere a L’ombra del dubbio (1943) una calcolata autorialità il suo sforzo si rovescia nella direzione opposta, si diluisce in scialbe note di colore. E nemmeno La donna che visse due volte (1958) è immune da questo atteggiamento: le sue cadenze di melodramma intellettuale sono in qualche modo in contraddizione con quel cinema di ritmi, di giustapposizioni, solo apparentemente disimpegnato, con cui Hitchcock ha dato il suo meglio.

Le sue opere migliori, dunque, sono forse quelle in cui il cinema puro si mostra in tutta la sua propensione alla limpidezza, ad una geometrica semplicità, in cui ogni cedimento al decorativo viene bandito. La freschezza e la fluidità de Il Club dei 39 (1935), le atmosfere fredde e brumose di Frenzy (1972), la concisione di Notorious (1946), il finissimo sperimentalismo de Gli Uccelli (1963): un cinema in cui ogni confine tra forma e contenuto viene definitivamente distrutto.