Siamo davanti ad un controesodo biblico a Gaza, una marea umana sta tornando nel nord della Striscia mentre c’è grande attesa tra la popolazione israeliana per la liberazione dei prossimi ostaggi. Un nuovo scambio avrà luogo sabato prossimo. La Jihad islamica ha annunciato che sono morti 8 dei 33 ostaggi nelle mani di questa organizzazione terroristica e l’Unione europea annuncia la riapertura della sua missione Eubam al valico di Rafah, a 18 anni dalla sua sospensione.

Intanto la proposta del presidente Usa Trump di “ripulire” Gaza, ridotta a un cantiere di demolizione e di trasferire la sua popolazione in Egitto e Giordania, ha suscitato, come era da aspettarsi, una reazione negativa nei due paesi ed è stata bollata come mossa “ostile” nei confronti dei due alleati degli Stati Uniti che mirerebbe a “liquidare la causa palestinese”. Preferirei impegnarmi con alcune nazioni arabe e costruire alloggi in un luogo diverso, dove magari potranno vivere in pace per una volta”, ha precisato Trump, aggiungendo che lo spostamento degli abitanti di Gaza nei vicini Egitto e Giordania potrebbe essere effettuato per un “periodo breve” o “a lungo termine”.

La Giordania che già ospita 2,3 milioni di rifugiati palestinesi, ha respinto qualsiasi progetto volto a fare del regno una “patria alternativa”. “La Giordania è per i giordani e la Palestina è per i palestinesi”, ha affermato domenica il ministro degli Esteri Ayman Safadi. L’idea trumpiana rappresenta per i due stati arabi “una minaccia per la loro sicurezza e la stabilità” ed è vista come un “messaggio di pressione” per Amman e un “dono avvelenato” per il Cairo. I regimi, giordano ed egiziano temono un loro crollo se ciò dovesse accadere. Mentre per i palestinesi, qualsiasi tentativo di allontanarli da Gaza evocherebbe il ricordo cupo di quella che il mondo arabo chiama la “Nakba” o “catastrofe”, ovvero lo sfollamento di massa dei palestinesi che avvenne durante la fondazione dello Stato di Israele nel 1948.
L’idea di Trump dunque è vista dal Cairo e da Amman come “irrealistica” e come un riflesso della “posizione dell’estrema destra israeliana” adottata come “pretesto umanitario”.

L’Egitto ha già messo in guardia contro qualsiasi “spostamento forzato” dei palestinesi da Gaza verso il deserto del Sinai e ha respinto qualsiasi violazione dei “diritti inalienabili” dei palestinesi, sia temporaneo che a lungo termine. Re Abdullah II dal canto suo ha stabilito delle linee rosse, tra cui quella di evitare una “giudaizzazione di Gerusalemme, nessun reinsediamento dei palestinesi e nessuna patria alternativa”. A dispetto dello sbandierato sostegno pubblico ai diritti dei palestinesi, in verità quasi tutti gli stati arabi hanno a lungo guardato questa popolazione con “paura e disprezzo”. Ciò è particolarmente vero per l’Egitto e per la Giordania, che continuano a rifiutarsi di ammettere palestinesi dall’altra parte del confine. Si sa che una potenziale risoluzione del conflitto israelo-palestinese dipende dalla comprensione della storia da parte araba e, soprattutto, dalla riluttanza degli stati arabi a venire in aiuto dei palestinesi. Finora, questi stati non hanno permesso il reinsediamento dei palestinesi nel loro territorio.

Se andiamo indietro nella storia, emergono vari esempi di avversione araba verso i palestinesi, come al tempo dell’operazione israeliana in Libano del 1982 e del massacro nel campo profughi palestinese di Shatila, compiuto da forze libanesi. Quello fu solo uno dei tanti massacri. Tall al-Za’tar, il grande campo profughi palestinese a Beirut Est, fu assediato da forze libanesi e ridotto in macerie nei primi giorni della guerra civile libanese nel 1975. E solo tre anni dopo il massacro di Shatila, nel 1985, iniziò qualcosa chiamato “Guerra dei campi”. Furono le Falangi sciite libanesi, sostenuti dalla Siria e dall’Iran, ad assediare i campi di Shatila e Bourj el-Barajneh per quasi tre anni con un numero incalcolabile di morti e feriti da parte dei palestinesi.

Anche Teheran non ama i palestinesi. Si sa che la cooperazione con Hamas è un matrimonio di convenienza. Tutto fa parte della strategia più ampia dell’Iran che prevede l’esportazione dei princìpi della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente e nel mondo, con la sottomissione dell’Arabia Saudita. L’obiettivo dell’Iran e del cosidetto “asse della resistenza” è quello di espellere la Stato ebraico e gli Usa dalla regione. Khamenei, dopo il 7 ottobre non ha mai pronunciato una parola a sostegno della popolazione palestinese, ha sempre, invece, rivolto minacce e parole di odio verso lo Stato ebraico definito come “entità sionista”. Che le quattro guerre arabo-israeliane siano state combattute dai governi arabi per i propri interessi nazionali e non per promuovere realmente la creazione di uno stato palestinese è scritto nella storia.

La Giordania ha memoria dell’organizzazione terroristica “Settembre Nero” con il tentativo dell’OLP, nel 1970, di rovesciare la monarchia giordana. Il tentativo si concluse con l’espulsione dal paese di migliaia di palestinesi. Gli stati arabi temevano l’affermarsi del nazionalismo palestinese laico, visto come una minaccia esistenziale sia per la Giordania che per la Siria. Per entrambi i paesi, l’OLP rappresentava un grave pericolo, tutto il resto era secondario. Ora temono l’affermarsi della Fratellanza musulmana. Quando l’anno scorso, il Segretario di Stato americano dell’amministrazione Biden, Tony Blinken, propose all’Egitto di dare un rifugio temporaneo ai cittadini di Gaza, Il Cairo insorse a causa dell’inimicizia verso Hamas per la loro affiliazione alla Fratellanza Musulmana.

L’ultima cosa che gli stati arabi, in particolare quelli della regione intorno alla Palestina e a Israele, avrebbero voluto vedere era un movimento palestinese indipendente, per non parlare di uno stato. Quasi tutti i governi arabi sembrano uniti su un punto: i palestinesi sono una minaccia, una popolazione estranea che deve essere indebolita se non addirittura sterminata.