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Quattro condannati e “Le menzogne della notte”. Il romanzo pseudostorico del geniale Bufalino
Gesualdo Bufalino è stato uno degli scrittori italiani più geniali del Novecento. Italiani, ma vorremmo subito aggiungere: siciliani. Giacché la “sicilianità” colta, raffinata, fantasiosa è elemento decisivo nella produzione bufaliniana. Proprio come in quella del suo grande amico Leonardo Sciascia, che con Bufalino condivide – tra le altre – una caratteristica: quella di essere uno scrittore non facile proprio a causa, o per merito, della sua infinita capacità di inventare storie, storie al di là dei tempi.
“Le menzogne della notte”, con cui vinse il premio Strega nel 1988 e ripubblicato adesso sempre da Bompiani, è il terzo romanzo di Bufalino. Vi si narra di quattro condannati a morte che hanno a disposizione appunto una notte per raccontare la loro storia di cui alla fine verrà appurata la veridicità. Come in Pirandello, realtà e finzione si intrecciano. L’ultimo personaggio a parlare, il Poeta, riconoscerà esplicitamente di aver mentito e nella conclusione il Governatore-giudice smaschererà anche gli altri. La messa in discussione del confine tra verità e invenzione letteraria non è fine a sé stessa: la posta in gioco è nientemeno che la vita dei personaggi. «Romanzo pseudostorico – nota Nunzio Zago nell’introduzione – che si affida al travestimento in costume per arginare, piegandola verso l’allegoria, la spiccata tendenza dell’autore alle analisi interiori». Che è poi la forza dello scrittore siciliano.
Bufalino, che era coltissimo, fa qui ricorso a decine di citazioni indirette e di situazioni letterarie in una fitta trama linguistica e formale, così che in queste pagine risuonano echi lontani soprattutto di Francia, la sua amata Francia (fu anche traduttore tra l’altro di Baudelaire). Ecco qui se non sembra Stendhal: «Qui quietamente leggevo, levando appena gli occhi di tanto in tanto verso la panchina di fronte, dove una solitaria fanciulla, di gusti consimili, veniva ogni mattina a sedersi all’ombra di una Pomona di gesso. Bella, e mi guardava anche lei, interponendo per segno un dito fra le pagine di un libro. Coi capelli biondi, sciolti sullo strapiombo del seno, e un broncio affabile sulle labbra. Non le parlai, sebbene sembrasse desiderarlo, aspettarlo. Solo una volta raccolsi il cappello di paglia che il vento le aveva rubato e portato galeotto sino ai miei piedi, ma glielo porsi con un inchino appena, e in silenzio. Da ciò mi venne un ulteriore rammarico e una grigia pietà di me». Grande scrittura da rileggere.
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