Forse è un caso che la più grave crisi del Movimento Cinque Stelle, tale da metterne a repentaglio l’esistenza, abbia una miccia innescata a Napoli, sia pure da parte di un gruppo di militanti non riconducibili ad alcun dirigente nazionale. O forse non è un caso, perchè la Campania è il granaio dei Cinque Stelle. Ma un granaio assai particolare. Ieri Bernardino Tuccillo ha firmato su queste colonne una riflessione preziosa e assai informata nella quale ha mostrato come i Cinque Stelle abbiano giocato un ruolo, spesso in controluce, in questi anni nelle vicende campane. Ma con due punti da fermare: mai da protagonisti e quasi sempre contro la propria ribollente base.

Rovesciamenti frequenti di linea per l’intervento di questo o quel leader ed ecco che la loro manina ha fatto capolino negli ultimi dieci anni della politica campana, dalla ascesa (e riconferma) di de Magistris al secondo mandato di De Luca, alla candidatura Manfredi. Intendiamoci, si può pensare quello che si vuole ma i Cinque Stelle hanno avuto un ruolo di prima grandezza nella politica nazionale, incidendo non solo nelle alchimie delle formule di governo ma anche nelle scelte politiche. A livello regionale e locale niente di tutto questo. Hanno per lo più rifiutato di giocare seriamente e si sono limitati a fare delle scelte coerenti con le loro posizioni nazionali. La stessa esperienza Capuozzo a Quarto di Napoli è finita ingloriosamente, senza lasciare traccia e con un lancio di stracci. Eppure al Senato nelle elezioni politiche del 2018 il Movimento Cinque Stelle ha avuto quasi la maggioranza assoluta dei voti (48,5%). Certo un moto di opinione: ma possibile che un risultato da surclassare quelli della Dc non lasci traccia sui territori? Possibile che non sia stato l’inizio di una qualche visione del futuro su di essi? Finora possibile.

Del resto anche la rinuncia di Fico a correre per sindaco di Napoli è l’ultima occasione sfumata per radicarsi territorialmente, per quanto si possa comprendere la riluttanza della terza carica dello Stato a cimentarsi in trincea, anche per disposizione caratteriale. Fatto sta che la Campania ha due dei quattro o cinque leader nazionali, con Fico che avrebbe una certa presa in città quanto Di Maio sulla provincia. Senza contare che il sindaco di Napoli e della città metropolitana, Manfredi, è vicinissimo a Conte ma assai refrattario a rivelarsi politicamente. È vero che i risultati delle elezioni amministrative sono sempre stati impietosi, e non solo in Campania, ma cosa si è fatto, del resto, per cogliere successi? Il punto è che ai meet up non è stato sostituito nulla, e che il pluralismo delle idee e organizzato esiste ma non c’è il coraggio di rivendicarlo.

In questo modo la politica si è fatto disputandosi il controllo della Rousseau o distribuendo incarichi o, al massimo, indicando priorità politiche nazionali. Ma mai offrendo una-idea-una sul futuro di Napoli o della Campania. A me non scandalizza (più) che Fico e Di Maio siano al vertice dello Stato. Ormai sono in parlamento da quasi dieci anni, hanno accumulato un’esperienza istituzionale che alcuni blasonati nomi della “Prima Repubblica” non hanno mai avuto. È andata così. Il punto è: cosa sono i Cinque Stelle nella dimensione locale e regionale? Può esistere un partito solo nazionale? Difficile. Sicuramente Fico e Di Maio non sono destinati ad essere inghiottiti nel dimenticatoio della storia, a differenza di altri loro colleghi di partito.

Si può discutere di tutto, ma il loro destreggiarsi tra le faide ne rivela accortezza e il fatto che svolgano importanti incarichi senza particolari onte (salvo inevitabili ingenuità e strafalcioni iniziali) dimostra che sanno ascoltare e circondarsi di persone valide. Una fase è finita anche per loro. Il ritorno dei partiti li obbligherà a fare politica a tutto campo, con strutture e – come si diceva un tempo – amici.