In un suo magistrale affresco della crisi della amministrazione tradizionale, Giorgio Berti avvertiva già anni fa della involuzione radicale di un potere amministrativo non più al passo con i tempi, chiuso in stanche cerimonie procedurali, insensibili al mutamento e alla frammentazione di una società sempre più complessa.

Un altro padre nobile del diritto amministrativo, Feliciano Benvenuti, nel suo noto e fondamentale ‘Il nuovo cittadino’, predicava l’apertura della sfera amministrativa alla modellazione di nuove forme e dimensioni dell’azione pubblica, partecipata dai cittadini lungo il canone di una libertà attiva. Negli ultimi anni, in forza del principio di sussidiarietà, evocato dal diritto euro-unitario e poi espressamente riconosciuto a livello costituzionale con la riforma del Titolo V, si è iniziato a parlare di ‘cittadinanza attiva’. Termine, se si vuole, opaco e ambiguo ma che dovrebbe nella sua più pura essenza tradursi nella estrinsecazione pratica e politica della sussidiarietà. Principio di antica, risalente nobiltà, più volte riaffermato nella dottrina sociale della Chiesa.

Nella enciclica Deus Caritas est, del dicembre 2005, con incisive, cristalline parole la sussidiarietà viene declinata nel senso di apertura dello Stato a forme di collaborazione con gli individui, al fine di evitare eccessi di ossificazione burocratica. La sussidiarietà è, o dovrebbe essere, un organismo respiratorio che connette la sfera pubblica a quella privata, in un processo di reciproco scambio e di purificazione dell’ossigeno gestionale e amministrativo, disincagliando e divellendo le scorie di una paralisi dell’azione amministrativa e della cura per il territorio, per la vita urbana, per la socialità. La cittadinanza attiva pertanto finisce, in questa prospettiva, per divenire elemento di effettiva partecipazione alla vita delle città. Lontano da quella declinazione da ‘cittadinanza totale’ cara a Beppe Grillo e su cui già Bobbio metteva in guardia.

Attivo è il cittadino consapevole di non essere corpo separato dal potere pubblico e che, letteralmente, si rende parte attiva nella cura della socialità, del decoro, del territorio, del verde. Patti di collaborazione, regolamenti per la sussidiarietà orizzontale, sono strumenti che sempre più spesso gettano un ponte di collegamento tra potere pubblico e associazioni o comitati di cittadini. E poi ci sono gruppi di cittadini che pur senza un formale riconoscimento si adoperano industriosi per pulire, ramazzare, curare il verde, sistemare strade, certe volte però persino sanzionati a causa di quel mancato riconoscimento autorizzatorio.

E però Salvatore Satta, nel ‘De profundis’, metteva in guardia da una declinazione stanca, vuota, meramente formalistica della libertà, vista semplicemente, quando declamata da politici e amministratori che però poco fanno per garantirla davvero, come proiezione di totale assenza di libertà. Si proclama, ad ogni piè sospinto, il verbo della libertà, la necessità di agire, di attivarsi, semplicemente perché non si sa davvero cosa farsene della libertà.

La cittadinanza attiva è ‘prendersi cura’ e soprattutto risponde a quell’imperativo del ‘fare la propria parte’. Il punto sta esattamente qui. Ciascuno dovrebbe fare la propria parte. Le amministrazioni non possono pretendere, sia pure implicitamente rimanendo inerti, che i cittadini – i quali pagano spesso onerose tasse – surroghino alle mancanze dell’amministrazione stessa.

Il nuovo direttore generale di AMA, in una città come Roma impaludata ormai in cronici ed endemici disservizi, stringe la mano ad alcuni cittadini che operosamente hanno pulito delle strade. Gesto di civiltà, il suo, se si vuole di galanteria istituzionale ma che segnala dolente la triste verità di una città in cui a fare la ‘loro parte’ spesso sono solo i cittadini. D’altronde la tassa sui rifiuti, nonostante la richiesta proveniente anche da esponenti del partito che governa Roma, è rimasta invariata. E quindi, spiace dirlo, una stretta di mano non basta.