Il 9 ottobre di 40 anni fa un commando composto probabilmente da 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma, uccise un bambino di 2 anni, Stefano Gaj Taché, e ferì 37 persone. Uno solo dei terroristi fu individuato, arrestato in Grecia e dopo poco tempo liberato. I documenti rintracciati da Giordana Terracina e pubblicati su questo giornale confermano che l’attentato era del tutto prevedibile e che l’obiettivo era in testa alla lista di quelli segnalati come ad alto rischio. Ciò nonostante non solo non fu presa alcuna misura di sicurezza: il giorno dell’attentato la Sinagoga era completamente priva di protezione, senza neppure la macchina della polizia sempre presente quando, come quel sabato, si svolgevano funzioni religiose e il Tempio era pieno.

La procura di Roma ha riaperto ora l’inchiesta. Convegni e volumi ricordano quella data che fu una frattura e uno spartiacque nella storia della comunità ebraica della Capitale. Oggi verrà presentato a Roma il libro di Massimiliano Boni e Roberto Coen Una ferita italiana? (Salomone Belforte Editore, 2022, pp. 332, euro 30.00, prefazione di Alberto Cavaglion) che contestualizza la vicenda, ricapitola a volo d’uccello la storia della comunità romana, la più antica del mondo, e soprattutto riporta minuziosamente tutte le testimonianze e i ricordi di chi visse in prima persona quella giornata tragica. Proprio le testimonianze rendono il libro la più completa ricostruzione dell’attentato disponibile. Ma perché la Sinagoga, nonostante le informative, nonostante gli attentati compiuti in quelle settimane in altre città europee, fu lasciata priva di protezione? Cossiga ipotizzava una complicità omicida dello Stato italiano che in nome del lodo Moro, il patto segreto tra Stato italiano e organizzazioni palestinesi, consentiva attacchi contro obiettivi anche italiani se legati a Israele. L’ex presidente non era un pazzo né un ingenuo. Conosceva come pochi altri in Italia le dinamiche e le operazioni inconfessabili dei servizi segreti. Le sue denunce non possono essere prese alla leggera ma non costituiscono neppure una certezza.

È del tutto possibile, e per certi versi persino più inquietante, che la sottovalutazione del pericolo, o la scelta di ignorarlo, sia stata conseguenza non di una decisione fredda ma di un clima generale di ostilità nei confronti degli ebrei che, soprattutto a sinistra, toccò nei mesi dell’invasione israeliana del Libano, punte di conclamato antisemitismo mai raggiunte dalla fine della guerra e mai eguagliate in seguito, per quanto tutt’altro che scomparse. La parte più interessante del libro di Boni e Coen è proprio quella in cui ricostruiscono l’oscena temperie di quei mesi. Molte tra le principali penne del giornalismo democratico italiano si lanciarono spensieratamente nell’equiparazione tra Israele e nazismo. Alcuni dei più dotati e salaci disegnatori di satira pubblicarono vignette che non avrebbero sfigurato sull’ignobile Der Sturmer di Julius Streicher, il più volgare e violento tra i periodici nazisti antisemiti, attribuendo all’allora premier israeliano Begin il nasone adunco e le labbra carnose che connotavano “i giudei” nell’immaginario nazista. Per la prima e unica volta comparve in alcuni titoli la parola “ebrei” invece di israeliani. Agli ebrei italiani fu intimato di prendere le distanze da Israele. Come è noto poco prima dell’attentato, nel corso di una manifestazione dei sindacati, un gruppo di manifestanti aveva deposto una bara di fronte alla sede della comunità, vicinissima alla stessa Sinagoga.

Nel clima di esplicito antisemitismo che si era creato, l’eventualità di una “distrazione” delle forze dell’ordine senza bisogno di ordini precisi derivati dalle clausole del lodo Moro è certamente ipotizzabile. Sull’onda dell’invasione del Libano riaffiorarono sicuramente pulsioni antisemite latenti. Altrettanto certamente l’equiparazione tra Israele e Germania nazista ebbe una funzione autoassolutoria in un Paese che aveva varato pochi decenni prima le leggi razziali. La riapertura dell’indagine ha in realtà senso solo nell’ipotesi che la scelta di non proteggere gli ebrei fosse conseguente a un patto segreto stretto dallo Stato italiano. Altrimenti non servirebbe a nulla individuare, dopo quarant’anni, i componenti del commando ancora anonimi e neppure certificare le eventuali responsabilità dell’Olp, ufficialmente estraneo all’attentato attribuito all’ala dissidente di Abu Nidal. Ricostruire il clima in cui maturò la mancata protezione della Sinagoga invece è ancora oggi necessario, perché alcuni dei temi emersi allora, primo fra tutti la denuncia di nazismo rivolta contro le principali vittime del nazismo, non sono mai stati del tutto cancellati e costituiscono anzi ancora oggi la colonna vertebrale dell’antisemitismo di sinistra.