Se si guarda ai risultati del secondo turno delle elezioni legislative francesi – dopo quelle presidenziali dello scorso aprile – è possibile fare qualche considerazione di carattere più generale sull’evoluzione del sistema politico d’oltralpe, cominciando da pochi dati di fatto. A partire dall’introduzione del mandato presidenziale di 5 anni, solo Emmanuel Macron è stato rieletto per la seconda ed ultima possibile volta (un terzo mandato è infatti escluso dalla riforma costituzionale voluta da Chirac). I suoi predecessori, prima Nicolas Sarkozy, poi François Hollande, non erano stati rieletti, anzi quest’ultimo, vista la bassissima popolarità alla fine del suo mandato, aveva addirittura rinunciato a ripresentarsi.

Ma Macron è stato eletto con un vantaggio ben minore di quello ottenuto nel 2017 – 58,55 invece di 66,10 – e con una maggioranza relativa in Assemblea di 247 seggi – dati di Le Monde – invece che 308, ben lontano dalla maggioranza assoluta di 289. Verrebbe da rovesciare la vecchia tesi di Andreotti e dire che oggi il potere logora chi ce l’ha. Aggiungeremmo: soprattutto se chi ce l’ha prova a modificare lo status quo e vuole, ciò nonostante, essere rieletto. I francesi, che sono in genere, come gli italiani, specialisti della critica e anche più pronti di noi a portarla in piazza e a farle assumere forme violente, criticano Marcon per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto. In realtà, sembra ragionevole sostenere che il presidente, pur bene eletto nel 2017, e sostenuto da una solida maggioranza nell’assemblea rappresentativa, non ha potuto far molto per governare un paese che non ha accettato una autorità che gli veniva certo dalla costituzione e dalla legge elettorale, ma che era osteggiata o al più tollerata dalla maggioranza dei cittadini. Basti pensare al fatto che gli è stato impossibile far approvare la riforma del sistema pensionistico, con la conseguenza che la Francia è l’unico paese in Europa dove i cittadini pretendono di andare in pensione a 60 anni.

La vittoria ridotta del secondo mandato di Macron, in queste circostanze, è di per sé un successo, ma, come riconoscono tutti i commentatori politici in Francia ed altrove, rischia di essere dopo i risultati delle legislative, se non una vittoria di Pirro, un successo che non permette comunque di governare la Francia. Il che mostra, tanto per cominciare, che vincere e governare non sono sinonimi. Vincere è una precondizione per poter governare, ma lo è soltanto se la vittoria elettorale è basata su altre precondizioni che trasformino quest’ultima in capacità di governo. L’elezione presidenziale garantisce sempre la vittoria di un candidato scelto dai cittadini grazie alle seconde preferenze espresse al ballottaggio (ma, in certi casi, di fatto anche terze o quarte rispetto alle intenzioni di voto originarie). Queste però sembrano ormai essere piuttosto un voto contro il candidato che sarà sconfitto – negli ultimi due casi la destra etno-nazionalista di Marine Le Pen – piuttosto che una scelta a favore, foss’anche debole, per il candidato vincente. E ciò si è visto chiaramente nei risultati di domenica.

I presidenti eletti dopo l’introduzione del mandato di cinque anni hanno sempre avuto una maggioranza all’Assemblée nationale. Questa volta non basterà a Macron, che dovrà provare a coinvolgere in particolare il gruppo parlamentare dei Républicains – la destra europeista – che ha ottenuto un numero sufficiente di rappresentanti 64 per consentire forse le decisioni parlamentari che sono necessarie al presidente per poter attuare un programma politico. Che non potrà semplicemente imporre, ma dovrà negoziare con le forze politiche disposte ad un compromesso. Che questa sia necessariamente una sconfitta, come sostengono i critici, può essere contestato, anche se c’è il rischio che la Francia, come l’Italia dopo le elezioni del 2018, sia in qualche modo paralizzata. Il potere politico in un regime liberal democratico non può essere semplicemente un diktat delle maggioranze elette, a meno che queste non rappresentino anche una prevalenza numerica nella società nel suo complesso e dunque, in qualche modo, già una forma di maggioranza pluralista o plurale.

La figura del presidente francese ha una natura per alcuni versi ambigua. Nella costituzione del 1958 il capo dello stato era scelto dai deputati e la forma di governo era parlamentare; è solo nel 1962 che De Gaulle impone l’elezione popolare diretta grazie ad un referendum. Ma è nel 2000 che il presidenzialismo, pensando di escludere grazie al mandato di cinque anni la possibilità della coabitazione, è sembrato approdare ad una forma senza ostacoli del potere del capo dello stato. In realtà il presidente francese non può efficacemente governare grazie alla sua sola maggiorana parlamentare quando la base numerica del suo reale consenso popolare non va al di là di un quarto del corpo elettorale, come è ormai il caso al primo turno dell’elezioni. Un governo basato su compromessi fra il presidente e l’assemblea è forse la sola chance di evitare lo scontro con le forze sociali e dunque la paralisi legislativa. Inoltre, la presenza reale e non solo simbolica delle opposizioni nell’assemblea rappresentativa può rendere il lavoro della medesima più faticoso, ma serve sperabilmente anche ad evitare che l’opposizione si esprima con violenza nelle piazze, dove la mediazione diventa impossibile.

Riguardo ai risultati del voto, ci si può domandare come mai un paese diviso politicamente in tre parti di dimensione praticamente uguale e che ha vissuto al secondo turno delle presidenziali la competizione fra il centro di Macron e la destra nazionalista di M. Le Pen, veda ora una Assemblea dove la sinistra radicale è rappresentata in proporzione superiore alla destra del Rassemblement National. La risposta, ancora una volta, viene dalla legge elettorale che, in particolare al secondo turno e in un sistema politico caratterizzato dalla presenza di molti partiti, favorisce le coalizioni fra partiti e penalizza chi va da solo. Ora, mentre Mélenchon ha avuto buon gioco ad imporre una coalizione di tutta la sinistra ostile a Macron, che era stata sconfitta nel 2017 perché divisa, Le Pen ha pensato che fosse più importante mantenere la leadership della destra nazionalista e rifiutare l’alleanza con il neopartito di Eric Zemmour, che aveva cercato di prendere il suo posto, riuscendo in tal modo ad impedire che quest’ultimo potesse accedere al parlamento. Non potendo battere Macron, Le Pen si è preoccupata di liquidare, per ora, la minaccia per lei più pericolosa.

Infine, occorre ricordare che, come molti commentatori hanno già sottolineato, queste elezioni legislative sono state caratterizzate da un livello di astensioni particolarmente elevato: 54% rispetto al 52,49% del primo turno. Ma bisogna osservare da un lato che la più antica democrazia rappresentativa, gli USA, hanno un tasso di partecipazione dello stesso ordine di grandezza da tempo: negli ultimi decenni la partecipazione alle elezioni presidenziali è stata di circa il 60% e di circa 40% nelle elezioni di metà mandato e che il pericolo per la democrazia americana non è venuto dall’astensionismo, ma dalla ben più grave e indipendente pretesa di aver vinto le elezioni perse! Dall’altro lato, considerando nello specifico il caso francese, è necessario sottolineare che in un sistema iper-presidenziale come quello creato a partire dal 2002 (le prime elezioni legislative dopo l’introduzione del quinquennio stabilito per la permanenza in carica del Presidente), i cittadini hanno con qualche ragione pensato che il potere di governo si concentrava nelle mani del presidente designato e non anche dell’Assemblea.

E non è affatto sorprendente che il tasso di partecipazione alle elezioni presidenziali sia rimasto alto: 74,56% nel 2017 e 72% lo scorso aprile, mentre calava al tempo stesso quello alle legislative. Se in futuro dovesse crescere il rilievo politico e decisionale dell’assemblea, è possibile che gli elettori finiscano per prendere più sul serio il voto per quest’ultima istituzione. Che il generale De Gaulle non amava e che in tutta la vicenda della 5a Repubblica non ha mai svolto lo stesso ruolo che i suoi equivalenti hanno nelle altre democrazie europee. Si può ricordare che il tasso di partecipazione alle elezioni del potente Bundestag tedesco alle ultime elezioni (2021) è stato del 76,58%. Certo per Macron, dopo questo voto che lo priva di una maggioranza necessaria alla assemblea legislativa, si apre una fase certamente difficile. Il destino della Francia, se le forze politiche europeiste non saranno capaci di compromessi come hanno saputo fare i tedeschi, è quello di un declino del suo sistema politico e costituzionale e del suo ruolo nel concerto delle nazioni europee. I prossimi mesi permetteranno di capire se e come potrà sopravvivere la 5a Repubblica.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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