Questo è un libro di avventure lontane, dall’altra parte del mondo: nel Far East – specchio rovesciato del più familiare Far west. La Siberia, il Caucaso, Samarcanda, il deserto e la steppa, il ghiaccio e il fuoco. Poi, alla fine, “Qui il sentiero si perde“, ecco il titolo di questo incredibile, fantasmagorico, appassionante romanzo di Peské Marty (Adelphi, trad. di Daniele Petruccioli), pseudonimo di Antoinette Peské (1902-1975), autrice che, ci informa la terza di copertina, interessò Apollinaire.

Nel 1955 assieme al marito Pierre Marty scrive “Qui il sentiero si perde”, un lungo romanzo che è anche scavo in una lontana sua discendenza mongola. E si sente qui l’eco di Turgenev e persino di Tolstoj. In breve, si racconta di un uomo che non si sa se sia un assassino o un santo o tutt’e due. Di certo è un fuggiasco, un essere umano che cerca un altrove, un posto che sia “oltre” (proprio come gli eroi americani), alla ricerca di pace interiore e amore per gli altri.

Nel suo particolarissimo viaggio incontra di tutto nel caleidoscopio di quel lontano mondo, nel turbinare delle stagioni e nel lievito di ansia religiosa, un po’ Vangelo e un po’ buddhismo inconsapevole. La questione è: chi era quell’uomo, quel Cristo che ricorda il Jean Valjean di Hugo o il Santo bevitore di Joseph Roth? Ed ecco il colpo di scena, il grande dubbio.

Il personaggio sarebbe nientemeno che lo zar Alessandro I, il vincitore di Napoleone, sulla morte del quale (1825) esistono dubbi leggendari (coltivati anche da Tolstoj) in base ai quali Alessandro – fulminato dalla lettura dei Vangeli – si ritirò dal mondo attraversandolo fino allo stremo pur di condurre una sua particolare opera di evangelizzazione. Ovviamente non sapremo mai la verità. Nemmeno se il protagonista del romanzo sia realmente esistito. Ma in fondo questo non importa. Egli è vivo in queste meravigliose pagine, e tanto basti.