"Ho imparato un mestiere grazie a un’associazione, non certo allo Stato che non esiste"
Raffaele, da rapinatore a pizzaiolo: “Ho rivisto la luce, in carcere ci facevano fare tanti corsi, fuori ci abbandonano”
Un figlio non voluto. Raffaele Criscuolo nasce in una famiglia che non lo aspettava con il fiocco azzurro tra le mani, cresce solo e ben presto l’azzurro che vede è quello del mare del golfo di Nisida. Lui è dietro le sbarre. Rapina. Entra ed esce dal carcere. Raffaele oggi ha 26 anni e due vite: prima e dopo Nisida.
Raffaele, tu hai conosciuto la realtà del carcere da adolescente. Come sei finito in cella?
«Nasco ai Quartieri Spagnoli in una famiglia che non mi voleva. Mia madre aveva già un figlio ed era giovanissima. Mio padre non voleva assolutamente un secondo figlio, cioè non voleva me. Loro si lasciano e lui ci abbandona. Così andammo a vivere con i nonni materni, mia mamma non era in grado di mantenerci e garantirci un tetto sopra la testa. Ma mentre mio fratello è sempre stato il prediletto ed erano tutti in prima linea per lui, io mi sono sentito sempre abbandonato: ero un figlio unico senza genitori e senza nonni. Né mia madre né i miei nonni si accorgevano se tornavo a dormire a casa o passavo la notte in strada. La mattina andavo a scuola e vedevo tutti i bimbi mano nella mano con i genitori e io andavo da solo, ero sempre solo, questi eventi mi hanno segnato la vita. Tutto nella vita si supera ma niente si cancella, ancora oggi combatto con questi pensieri, con questi ricordi e mi chiedo il perché?»
Quel vuoto lo riempi con “cattive amicizie” e la solitudine ti è stata quasi fatale…
«Sì, è così. Inizio a frequentare cattive amicizie e a entrare in brutti giri già a 13 anni. Volevo che si accorgessero di me, volevo dare un segnale per dire: ci sono anche io, esisto. Ho scelto il modo sbagliato per dimostrare la mia esistenza: iniziai a rubare. Iniziai a commettere i primi reati, la prima rapina la feci quasi per gioco, poi continuai a rubare perché non volevo chiedere soldi alla mia famiglia, mi sentivo rifiutato, abbandonato a me stesso. Non avevo nessuna guida, ero solo».
Vieni arrestato e portato a Nisida, mi racconti la tua esperienza nel carcere minorile?
«Pensavo solo alla mia libertà. Da Nisida potevo vedere il mare, ma non potevo toccarlo, vedevo volare un gabbiano ed io ero rinchiuso in una gabbia. Pensavo sempre a quello che avevo fatto ma purtroppo quando sei in carcere pensi “non ci rientrerò mai più” ma ti prendi in giro, appena esci ti ritrovi come prima e torni a delinquere. Perché Nisida più che un istituto è una scuola criminale. A Nisida ho fatto altre “brutte” amicizie, ho conosciuto persone poco raccomandabili e ho iniziato perfino a fumare le canne, cosa che fuori non avevo mai fatto. A Nisida ci entri per sbaglio ma esci da lì che hai una professione. Vieni promosso. Vieni assunto in una scuola criminale, così non ho fatto altro che peggiorare».
Perché hai questa opinione del carcere minorile?
«Perché non è normale che una volta arrestato e portato a Nisida, hanno iniziato a farmi fare mille corsi: corsi di ceramica, corsi per diventare pizzaiolo o barman. Perché questi corsi non si possono fare prima? Perché non ci danno la possibilità di scegliere prima di commettere un reato? Invece no, prima vieni arrestato e dopo ti fanno fare i corsi e ti fanno conoscere un’alternativa. Accorgetevi prima di noi che siamo a rischio e in difficoltà, prima che arriviamo in carcere. E invece in quartieri degradati non c’è niente. Mancano centri sociali e culturali, ci sono le associazioni ma è tutto un dare e avere per interesse, ci sono poche associazioni che lo fanno con il cuore e davvero per i giovani».
Cosa è successo, invece, quando hai lasciato il carcere di Nisida?
«Dopo un anno e qualche mese, esco con una pena sospesa, dopo cinque mesi di libertà ero di nuovo dentro. Sono stato arrestato di nuovo».
Perché hai commesso di nuovo un reato?
«Perché quando sono uscito nessuno mi ha seguito. Mi hanno preso e buttato letteralmente per strada, non era cambiato niente, ero libero e solo, padrone di sbagliare ancora. Questa cosa la trovo assurda, gli assistenti sociali dovrebbero seguirti anche dopo, finito il programma carcerario se è opportuno, devono continuare a seguirti e devono lasciarti solo quando sei una persona avviata, inserita nell’ambiente lavorativo, quando sei arrivato a certi livelli di coscienza e di sapere, quando sei parte integrante della società. Solo allora deve terminare il percorso iniziato in carcere. Ma se mi porti a Nisida, mi fai fare cento corsi e poi mi lasci solo, non cambia nulla. Io uscii un giorno prima di iniziare il corso da barman, esco e chiedo di poterlo seguire lo stesso, mi hanno detto che non era possibile. Così iniziai a lavorare nella pasticceria dei miei nonni, ma continuavo a sentirmi rifiutato. Dopo qualche mese ero di nuovo in carcere».
Poi la svolta.
«Sì. Sono stato in tv, il dottor Catello Maresca ascoltò la mia storia, mi cercò e tramite la sua associazione mi offrì di fare un corso da pizzaiolo. Accettai. Così imparai un lavoro, oggi faccio il pizzaiolo».
Tu sei riuscito a cambiare strada, cosa diresti a un ragazzo che non riesce a vedere che un’altra vita è possibile?
«Gli direi che oggi ciò che lo nutre, lo distruggerà. Gli direi di dedicare più tempo a sé stesso, di amarsi di più. E poi vorrei dirgli che non è vero che se nasci a Napoli non hai scelta, è dura ed è difficile ma volendolo un’alternativa c’è. Un’altra strada è possibile».
E allo Stato cosa diresti?
«Che la sua assenza è fortissima, che si dovrebbe impegnare molto di più nei quartieri difficili. E soprattutto gli direi che deve essere in grado di offrire un’alternativa ai ragazzi che non vanno a scuola, e che non hanno un lavoro, gli direi di sistemare le strutture sportive e i parchi, e di realizzare centri sociali e culturali. La dispersione scolastica e la disoccupazione sono alle stelle, così impugnare un’arma e fare una rapina diventa spesso l’unica strada per sopravvivere».
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