L'assoluzione dell'ex presidente della Sicilia
Raffaele Lombardo assolto completamente dopo 12 anni di limbo a un passo dall’inferno
La notizia dell’assoluzione l’ha raggiunto in una chiesa mentre, a guisa del segno di un destino magnetico che restituisce bene ai sentimenti buoni, dava l’ultimo saluto al suo amico di sempre, Giuseppe L’Episcopo, il proprietario di quel maneggio considerato dai pubblici ministeri di Catania la “cassetta della posta della mafia”. Secondo l’accusa, in quel luogo, i boss gli avevano recapitato messaggi, richieste, suppliche e preghiere. Perché in fondo questo accade nel più feroce dei processi, quello in cui non si processa il fatto di reato ma il tipo d’autore. Capita che anche il più puro dei sentimenti, l’amicizia, la filía, debba essere insozzato, sporcato dai sospetti, dalle ambiguità più malfide.
Il cattivo non può avere amici buoni e nessun luogo, per l’empio, è buono. Luoghi e persone si confondono in un circolo vizioso di infamia e disonore. Similes cum similibus congregantur. I simili si accompagnano con i loro simili. Il pubblico ministero che parte da questo assioma vorrebbe coltivare l’ambizione diabolica di mettere un imputato dentro una “campana di vetro”, processarne la vita, entrare finanche nel talamo della sua intimità. Raffaele Lombardo da Grammichele ha aspettato la sentenza, che lo ha assolto da ogni accusa di concorso esterno per mafia e corruzione elettorale, in quel momento di estremo commiato e, forse, da qualche giorno, alle pendici dell’Etna, in tanti credono nel destino onesto che accompagna sempre i buoni sentimenti. Due concezioni millenarie: quella “magnetica” e quella “elettrica” del destino: non conta ciò che accade ma come lo si vive, una realtà buona è il prodotto di pensieri, parole, opere, buoni sentimenti. Certo ci sono voluti dodici anni, un governo della Regione ingiustamente decapitato che equivale alla razzia dei principi democratici, una Sicilia ancora più infamata, la vita di un uomo sospesa in un limbo di maldicenze a un passo dall’inferno, ma la giustizia come la civetta di Minerva infine è arrivata.
I giudici di Catania hanno “detto” giustizia, non “fatto” giustizia. In questa ennesima triste storia di diritto penale del nemico quasi convertita nel lieto fine delle Eumenidi che non maledicono, la tazza del consolo vuole che emergano quei magistrati davvero “ordinari”, i quali silenziosamente amministrano la giustizia. Non si troveranno i loro nomi sui giornali, perché valutano i fatti senza nessun’altra vocazione, foss’anche quella apparentemente più nobile che diventa la più luciferina di creare hegelianamente “la società dei giusti”. Per esempio, quel Procuratore, oggi in pensione, Michelangelo Patanè, il quale, insieme al suo aggiunto di allora Carmelo Zuccaro, evitò che Lombardo – come voleva la sceneggiatura del caso – uscisse in manette da Palazzo d’Orleans, finendo per questo finanche dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura. E, infine, il collegio della Corte d’Appello di Catania presieduto da un giudice del giusto processo che non ha mai dissipato le parole: Rosa Anna Castagnola.
Di questa storia restano le arringhe dell’avvocato Maria Licata e del professore Vincenzo Maiello e l’ennesimo sforzo di Radio Radicale di rendere pubblico, di far conoscere per deliberare, come voleva Marco Pannella, consapevole che, solo uscendo dalle “segrete stanze”, il potere sia capace di conoscere un principio riparatore, incontrare il senso del limite, quella misura che è il senso vero dello Stato di Diritto: μηδεν ἄγαν, midén ágan, nulla di troppo. Resta anche Il Riformista che, pressoché isolato, scrive pagine non di cronaca ma interpreta una battaglia culturale e civile. Perché, dopo quattro, questo è il quinto articolo su questo giornale, quello del finale di partita di una storia giudiziaria, un lieto fine se non fosse che l’uomo, la sua vita familiare e politica, nel corso di dodici anni di attesa di giudizio, hanno già subito danni, forse, irreparabili. Noi di Nessuno tocchi Caino abbiamo conosciuto Raffaele Lombardo il giorno in cui la nostra compagna Sabrina Renna insistette per farcelo conoscere, iscrivendolo alla nostra organizzazione nelle mani della sua tesoriera Elisabetta Zamparutti. Siamo stati orgogliosi della sua tessera quando, per tutti, era Caino, il tipo d’autore, il condannato a un destino cinico e baro.
Di Lombardo abbiamo sperimentato, negli incontri che si sono susseguiti, una realtà diversa dalla rappresentazione mediatico-giudiziaria: un uomo scrupoloso, appassionato, curioso, desideroso di far conoscere le ragioni della sua vita e della sua esperienza di governo. Soprattutto abbiamo letto le carte di quel processo, senza fatti, prove, fondato esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti. La mafia non più come organizzazione criminale ma come morbo che assale, contagia, anche se si è asintomatici, se le proprie scelte siano diametralmente opposte alle ragioni del male. Una storia fatta di presunti contatti, di fattoidi, un romanzo gotico nel segno del sentito dire. Lombardo era mafioso perché alcuni pentiti dicevano che lo fosse.
E questo è bastato per distruggere la vita di un uomo e di una esperienza di governo, lasciando sul campo i “morti civili”: un piano dei rifiuti drammaticamente interrotto quando si erano gettate le basi per la differenziata, una coraggiosa e incompiuta riforma della sanità, una Sicilia ancora una volta marchiata come irredimibile. Sono i “morti civili” di un armamentario bellico che si nutre di una eterna emergenza, nel nome della quale si tiene in piedi un reato senza fattispecie, il concorso esterno in associazione mafiosa, e una norma demoniaca – il 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – che le giurisdizioni superiori hanno già dichiarato confliggere con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Una norma che, alla stregua di tutti i bis – 4 bis, 41 bis, 416 bis… diffidate di ogni articolo bis, nemico del Diritto! – non chiede ai detenuti una educazione sentimentale, un alto livello di coscienza, una nuova vita ma, come tutti gli assoluti iuris et de iure, impone loro di continuare a “trafficare”, a “scambiare” la loro libertà con un’accusa, un “dire male di”. Chiediamo a questi detenuti, di fare quello che hanno continuato a fare nella loro prima vita: “maledire”! E può uno Stato di Diritto trasformare gli uomini in uno “strumento vocale”, in un mezzo anziché chiedergli solo di essere un fine, semplicemente diventare uomini capaci di conoscere l’amore, la gratitudine, l’umanità? L’essere “addomesticati”, nel senso etimologico del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry: creare dei legami, condurre a casa. Fino a quando ci permetteremo un Paese nel quale, in nome della igienizzazione, della sterilizzazione della società, potremmo sacrificare i principi fondamentali e trattare i territori del mezzogiorno come un lebbrosario insalubre di misure di prevenzione, confische, interdittive, scioglimenti comunali, destituzione di classi dirigenti, massacro di uomini nel nome di un’antimafia che si specchia nella mafia, finendo per somigliarle? Per trent’anni, alla terribilità della mafia si è risposto con una terribilità uguale e contraria.
Sulla teoria del fine che giustifica i mezzi, il regime dell’antimafia ha allestito nel nostro Paese un arsenale terribile di leggi speciali e misure di emergenza, di processi inquisitori e sommari, di misure in teoria di sicurezza e prevenzione di fatto di pregiudizio e punizione, di pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi. Nessuno tocchi Caino continua la sua lotta volta a scongiurare la tragica eterogenesi dei fini che si rivelano l’opposto rispetto agli scopi originari. Siamo convinti che sia possibile combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. La conclusione positiva, seppur tardiva, della vicenda di Raffaele Lombardo ci conferma che è possibile.
Allora, nel finale di questa storia siciliana, immaginiamo l’uomo di Grammichele nelle campagne della sua terra quando ci raccontava che non poteva fare a meno di quel sole che non sa maledire. Quel processo si è (quasi) concluso con le Erinni convertite in Eumenidi, con la vendetta che ha lasciato posto alla speranza. Certamente la giusta chiusa è il sorriso, da qualche parte, chissà dove, di Giuseppe L’Episcopo e la sgroppata dei suoi cavalli. Quei mammiferi avevano interpretato una decisa “disobbedienza civile”: non ci stavano proprio, poveri diavoli, a esser “associati” con la mafia.
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