L'intervista
“Ragazzi, siate padroni della vostra esistenza”: parla lo scrittore ed ex-professore Marco Lodoli
Marco Lodoli torna nelle librerie con il suo ultimo romanzo, “Il Preside”, edito da Einaudi.
Lodoli, da sempre ha avuto un rapporto privilegiato con gli studenti, stando in prima linea nelle scuole della periferia romana come docente. Che idea si è fatto rispetto alle violenze compiute e condivise online da minori?
Sono notizie impressionanti ma continuo a credere che nell’adolescenza ci sia una natura positiva, curiosa, aperta. Dare la colpa al mondo può sembrare sbrigativo, ma è proprio il contesto in cui crescono certi ragazzi a farli diventare frustrati e violenti. Si tratta d’altronde di un mondo che apre poche finestre, poche porte e quindi spesso rovescia su questi ragazzi un senso forte di infelicità, che poi si traduce in gesti orrendi.
La scuola può aiutarli? Il mondo corre veloce ma ha ancora senso una scuola in cui si insegna il greco antico, l’algebra, dove gli alunni sono sobbarcati di compiti ma poco allenati ai sentimenti?
Io ho fiducia negli insegnanti, ne ho conosciuti tanti che capiscono questi ragazzi e ragazze. Non vogliono soltanto pressarli sotto il torchio dei compiti e delle interrogazioni, ma sono aperti ad ascoltarli, al dialogo, al confronto sui temi contemporanei. La scuola non è un posto dove si fa soltanto la trigonometria e l’aoristo ma un fondamentale luogo di incontro.
Di che maestri e di che genitori hanno dunque bisogno questi adolescenti?
L’esempio viene proprio dall’ultimo film di Matteo Garrone “Io Capitano”: un ragazzino si carica sulle spalle il proprio destino e quello degli altri, e assicura a tutti che nessuno morirà. Sul finale urla “io capitano!”, che significa che io sono il padrone della mia esistenza, e che mi metto a servizio dell’altro. Questo è il modello che serve, superando la superficialità del consumismo che alla fine si rivela insoddisfacente. Perché ai ragazzi di quest’età serve una cosa semplice: una spinta verso l’alto.
Servono persone illuminate dunque, come “Il Preside” protagonista del suo ultimo romanzo (ed. Einaudi) che prima di andare in pensione decide di barricarsi nella scuola, contro tutto e tutti. Perché lo fa?
Proprio per richiamare allo sguardo del mondo quello che è il ruolo della scuola pubblica: conoscenza di tante materie, ma anche conoscenza di sé stessi. Negli anni delle superiori, dell’adolescenza, dell’affacciarsi ai 18 anni, è necessario che scatti negli alunni anche un percorso di autoconsapevolezza. Il rischio è che l’insegnamento diventi sempre più impersonale e che si affidi solo a coltivare le competenze, che ci sia troppo tecnica, invece l’aspetto di crescita individuale e collettiva non deve essere assolutamente trascurato.
Cosa diresti ad un ragazzo o ad una ragazza che vuole lasciare gli studi?
Ho insegnato tanti anni in periferia e ho avuto a che fare con ragazzi che spesso sparivano e poi riapparivano, allora bisognava andarli a cercare, inseguirli. Ho sempre spiegato a questi giovani che il loro posto è la scuola perché è lì che trovano il cibo migliore: passare le proprie giornate in una piazzetta fuori da un bar, svegliarsi a mezzogiorno e vagabondare senza meta per la città produce soltanto depressione. Invece stare in classe è sempre un arricchimento, uno stimolo, sia culturale che esistenziale. Condividere con gli altri un mondo, questa è la ricchezza della scuola.
E invece cosa diresti ad un ragazzo o a una ragazza che vuole diventare scrittore, scrittrice?
È molto complicato. La scrittura è una vocazione irresistibile, non nasce dalla volontà, è un “dover essere” che scatta automaticamente, a volte in modo anche doloroso. Perché affrontare la creatività non è così divertente come a volte ci viene raccontato. Si tratta di fare dei viaggi nella lingua, nelle parole, nelle immagini, nel pensiero, viaggi che ti coinvolgono completamente e che stravolgono tutta la tua vita. Non si può dire “scrivi bene, fai lo scrittore”, questa è una chiamata che uno sente dentro di sé e che il professore può poi supportare.
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