Arrivò poi, nel 1987, la conquista di Montedison. L’acquisizione avvenne in modo quasi casuale, senza una strategia preordinata. Gardini riuscì ad inserirsi nella lotta tra Mediobanca e Mario Schimberni, il presidente di Montedison che aveva trasformato la società di Foro Buonaparte in una public company e aveva sfidato Enrico Cuccia sulla Bi-Invest dei Bonomi e su Fondiaria. Rastrellando titoli sul mercato, poco a poco Gardini accrebbe la sua quota in Montedison, peraltro comprando a un prezzo elevato le azioni di cui nel frattempo era entrato in possesso Carlo De Benedetti, nonché quelle di Gianni Varasi e di altri azionisti minori.

Alla fine, spiazzando lo stesso Cuccia, Gardini prese il controllo del gruppo chimico, pur appesantendo significativamente l’indebitamento della Ferruzzi, probabilmente animato anche dalla volontà di riuscire in una impresa completamente sua e non legata solo allo sviluppo dell’impero agro-industriale costruito dal suocero Serafino Ferruzzi.

A seguito della irruente scalata di Montedison, la stampa italiana, che in precedenza aveva soprannominato Gardini “il contadino”, prese anche ad indicarlo come “il pirata”. Alcuni media lo paragonarono ad un giocatore di poker che, con una impresa finanziaria eccessivamente spericolata, rischiava di mettere a repentaglio il patrimonio di famigliari fin troppo acquiescenti. E che con quella mossa, rischiava di scontrarsi irrimediabilmente anche con lo stesso Cuccia.

Sta di fatto che Montedison costituì un’autentica svolta per la Ferruzzi. Con grandi potenzialità ma anche con rischi enormi. Gardini si fidò inizialmente di Schimberni ma poi ruppe con lui quando capì che questi stava ulteriormente indebitando Montedison portando avanti in proprio progetti non condivisi. E fece piazza pulita di molti dei suoi uomini, mantenendo in squadra solo un professionista come Giuseppe Garofano e promuovendo gradatamente Italo Trapasso alla guida delle materie plastiche. Inoltre, Gardini chiamò Rita Levi Montalcini a far parte del Cda di Montedison. Liberatosi di Schimberni, si riavvicinò anche a Mediobanca perché aveva bisogno di Via Filodrammatici per rimettere ordine nei conti appesantiti del Gruppo.

È stato spesso enfatizzato che l’acquisizione della Montedison da parte della Ferruzzi sarebbe stata finalizzata all’obiettivo di esplorare un possibile legame tra agroindustria e chimica, un ponte che avrebbe potuto permettere di realizzare la “chimica verde”, altrimenti detta bioeconomia: vale a dire plastiche biodegradabili ottenute dal mais, carburanti ricavati dalle materie prime agricole come l’etanolo o il biodiesel, nuovi materiali, componenti e inchiostri biodegradabili. Frontiere che indubbiamente Gardini ha “focalizzato” con 35-40 anni di anticipo e che sono oggi più che mai di straordinaria attualità, nell’era di Greta Thunberg, delle nuove sfide che ci attendono con gli obiettivi ambiziosi della transizione ecologica e nel pieno del nuovo disordine globale innescato dalla pandemia e dall’aggressione russa all’Ucraina. Uno scenario che ha riproposto ad un Europa non sempre capace di programmare il proprio futuro la rude realtà di nuove improvvise “scarsità”, dal gas alle materie prime.

In realtà, il Gruppo Ferruzzi avrebbe potuto benissimo sviluppare la bioeconomia anche senza la Montedison. La visione della “chimica verde” di Gardini e del Gruppo Ferruzzi, infatti, era antecedente la presa di controllo del gruppo di Foro Buonaparte. E dentro la stessa Ferruzzi c’erano tecnologie d’avanguardia, come quelle dell’amido di Cerestar, che avrebbero potuto essere autonomamente indirizzate verso la bioeconomia con importanti prospettive di innovazione.

Il vero valore aggiunto per il nostro Paese dell’acquisizione di Montedison da parte del Gruppo Ferruzzi era invece potenzialmente un altro. Quello, cioè, di dare finalmente un azionariato stabile e un disegno industriale coerente alla società di Foro Buonaparte, dopo tanti anni tormentati di invadenze politiche e finanziarie, e di proiettarla sempre di più su scala internazionale. L’Italia avrebbe così potuto disporre non di una ma di ben due grandi multinazionali per competere sui mercati globali in settori strategici: la Ferruzzi nell’alimentare e la Montedison nella chimica. Senza contare che il nostro Paese avrebbe potuto averne in futuro anche una terza, cioè la Edison.

Furono Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi a proporre a Gardini di ripristinare il vecchio marchio Edison e di ridenominare così le ex centrali elettriche di autoproduzione ex Edison ed ex Montecatini riunite nella Selm, che era in pieno sviluppo sotto la guida di un altro capace manager, Giancarlo Cimoli.

Invece Gardini, forse per eccessiva generosità verso il suo Paese, forse per troppa ambizione, si “incartò” nell’affare Enimont. Quando le massime istituzioni politiche italiane, i vertici dell’Eni e i manager chimici della stessa Montedison proposero a Gardini un progetto per mettere in comune le attività della chimica di base di Montedison e quelle di Enichem in unico gruppo industriale, cioè di creare quella che sarebbe poi diventata la futura joint venture Enimont, l’imprenditore ravennate fu molto combattuto sul da farsi.

Lo ricordo bene perché ne parlammo insieme tante volte in quelle settimane. Da un lato, infatti, Gardini vedeva la Montedison soprattutto proiettata nel mondo, esattamente come la Ferruzzi. Una Montedison tutta concentrata sulle sue società d’avanguardia come Himont (leader nel polipropilene), Ausimont (leader nel fluoro) ed Erbamont (leader negli antitumorali). Gardini avrebbe potuto vendere la chimica di base di Montedison che non gli interessava, quella dei fertilizzanti, delle fibre, della raffinazione, del pvc e del polistirene, rientrando così in parte anche dagli investimenti finanziari fatti per scalare Foro Bonaparte. Questa era pure l’idea degli eredi Ferruzzi e di Sama.

Ma, dall’altro lato, Gardini era anche un uomo attratto dalle sfide impossibili. I vertici dello Stato italiano, tra l’altro, lo invogliarono a creare l’Enimont promettendogli anche dei consistenti sgravi fiscali per favorire la fusione societaria e lo rassicurarono sul fatto che Enimont sarebbe stato un gruppo gestito con mentalità privata e senza intromissioni politiche. Perciò Gardini alla fine accettò e, senza saperlo, quello fu l’inizio del suo calvario personale così come di quello dei suoi parenti, che anche in quella partita rovente non gli fecero mai mancare il loro sostegno, mettendo seriamente a rischio il loro patrimonio.
La storia andò molto diversamente da come Gardini aveva immaginato. Infatti, nei mesi immediatamente successivi alla nascita di Enimont apparve subito evidente che la politica e i partiti, nonostante le promesse che gli erano state fatte, non intendevano mollare per nulla la presa sulla chimica di base, sugli appalti, sulle rendite clientelari e i relativi consensi collegati, intromettendosi di continuo negli affari interni di Enimont, incluse le nomine di alcuni manager. E, per di più, gli sgravi fiscali promessi alla Ferruzzi dai massimi vertici dello Stato italiano non decollavano, con continui rinvii politici dal carattere ricattatorio e stop and go del Parlamento sulla materia. L’Enimont, guidata da Lorenzo Necci e Sergio Cragnotti, era letteralmente impantanata e in quelle condizioni costituiva una emorragia che sul piano finanziario rischiava di dissanguare giorno dopo giorno la Ferruzzi-Montedison.
Gardini si sentì ingannato dalle istituzioni del suo Paese. E da uomo d’azione e di mercato quale era reagì cercando di scalare l’Enimont in modo ostile, con l’appoggio di investitori francesi, dando inizio ad una guerra all’ultimo sangue con lo Stato italiano. Il paradosso di queste dolorose vicende è che il gruppo Ferruzzi, così poco avvezzo ad avere a che fare con la politica italiana, alla fine fu coinvolto in quella che è stata definita la “madre di tutte le tangenti”.

(3. Continua)