Questa è più di una recensione, perché “Un altro Ferragosto” di Paolo Virzì si libera subito dello schermo e irrompe nel mondo vero. Del resto, è l’ambizione quasi sempre mancata dei film esistenziali e corali, che mirano a disegnare un’epoca dai tormenti e le speranze delle singole persone, che più parlano meno dialogano, più interagiscono più sono sole. “Un altro Ferragosto” di epoche ne tratteggia addirittura due, quella inedita di metà anni ’90 e quella di oggi, ancor più malinconica ma con la novità che non è più neppure inedita.

La osserviamo passivi e senza sorprenderci, perché rispetto a trent’anni fa l’occhio pare quasi rassegnato. Le grandi domande di “Ferie d’agosto” del 1996 sembrano trovare in questo sequel tutte le risposte, ma non sono quelle che allora si speravano. L’isoletta di Ventotene, così piccola e raccolta, era il palcoscenico dilatato di un tempo a suo modo di rinascita e di dubbi. Tutto cambiava sotto i nostri occhi, ma per andare dove? Nella saga estiva dei due clan, quello guidato dall’idealista narcisista di sinistra Sandro Molino e quello dei Mazzalupi, imbevuti di trash tv, slogan destrorsi e mito dei soldi facili, non c’era un vincitore. Due mondi inconciliabili che comunque provavano a scrutarsi, a parlarsi. Certo, si irridevano a vicenda, perché nessun apostolo dell’antifascismo e della redenzione moralistica dei popoli poteva perdonare chi aveva il mito di Retequattro e bistrattava l’africano ambulante. E nessun artigiano del proprio benessere poteva fare sconti ai soloni del Bene e del Giusto finalmente scesi al loro livello, perché la politica di colpo parlava la sua stessa lingua. Si irridevano ma si sondavano, come per conoscersi e forse accettarsi.

Tre decenni dopo

Sono passati quasi tre decenni, e a Ventotene tornano in scena i protagonisti del ’96, con in più qualche nuovo acquisto e i bimbi di allora che intanto hanno percorso il loro cammino. A prima vista, colpiscono due cose. La prima è che ognuno di loro è rimasto intatto nei suoi tratti più profondi, siano essi il bisogno di amore o l’incapacità di amare, le illusioni e i tic da forever young, le piccole vanità e il mito del viaggio. La prima lezione, insomma, è che anche in un altro Ferragosto nessuno di noi guarisce davvero dalla sua identità incompiuta, e anzi porta con sé i suoi fantasmi. La seconda riguarda la fotografia collettiva di un Paese, il nostro sempre più arduo stare insieme: quel conflitto fra pianeti opposti sembra diventato insanabile. I social media lo amplificano, perché sono detonatori di relazioni ma anche di odio e di ossessione per il nulla. Ma la chiave del ritorno a Ventotene è che i due clan del 1996 ora neppure più riescono a guardarsi senza trasalire e poi girarsi dall’altra parte. I flashback di quella lontana estate non fanno che restituire immagini di attese rimaste tali, di rancori e passioni sospesi nell’aria come nuvole senza mai pioggia, messe lì solo per oscurare il cielo.

La sinistra c’è ancora?

La trama del film, come sempre in Virzì, è intricata come la vita delle persone vere, però sempre leggibile e coinvolgente, capace di richiamare in chi vede episodi e persone del proprio album personale. E, come spesso in Virzì, alla fine forse “accade troppo”, nel senso che tutte le storie personali hanno un esito eclatante. Colpi di scena annunciati, tipici dei film americani, diversi dallo scorrere spesso più monocorde delle nostre vite. Ma dentro quest’altro Ferragosto c’è anche la domanda più profonda e dolorosa: nel conflitto ormai estremo fra certe idee repubblicane e il mondo del tutto e subito, fra i valori fondanti e la monetizzazione social del consenso, la sinistra c’è ancora? O è ormai solo un riflesso condizionato verso i cliché del politicamente corretto e la parte sinistra delle torte dei sondaggi? Già. È il politically correct a fare da protagonista occulto del superbo affresco proposto da Virzì. Un mosaico di frasi fatte rinchiuse nei salotti e nella ormai famosa ZTL, che perdono ogni significato e vanno a sbattere contro la concretezza ruvida, volgare e creativa dei nuovi ricchi. Magari incolti e fascistoidi, ma perfettamente centrati sullo spirito del tempo.

Crederci ancora un po’

Questo Ferragosto 2023, insieme alla domanda sulla sinistra che in fondo è già una sentenza, regala molte scene che scavano l’anima. Sandro Molino, ad esempio, lascia questo mondo ritrovando il suo, insieme a Pertini, Colorni, Spinelli, la Ravera e la Hirschmann. Forse è questa la strada? Tornare ragazzi e crederci ancora un po’, come cantava Renato Zero? Del resto, due giovanissimi del film sembrano dire la stessa cosa. Il figlio di Sandro, Altiero, ha fatto i soldi ma non ha perso il cuore. E il suo nipotino Tito segue il nonno nel racconto sognante di un paese nuovo da liberare dall’ignoranza. E piange lacrime innocenti quando vede che i suoi occhi si chiudono. Perché capisce che in quel sogno è rimasto solo.

Sergio Talamo

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