I nodi prima o poi arrivano tutti al pettine. Quello del Recovery fund si è manifestato all’improvviso – si fa per dire – nel fine settimana. Da che «è tutto pronto, siamo nei tempi», spunta fuori una rogna gigantesca su chi dovrà gestire e verificare l’attuazione dei progetti e dei relativi capitoli di spesa. Chi gestirà insomma i 209 miliardi che sono la più grossa disponibilità di spesa che l’Italia abbia mai avuto dal dopoguerra ad oggi e che molti ambiscono a maneggiare. La soluzione messa sul tavolo dal premier Conte – una task force di sei supermanager e 300 esperti guidata da una cabina di regia a tre teste palazzo Chigi, Mef e Mise – non piace a larghi pezzi della sua maggioranza. Molti indizi lasciano pensare – vedremo cosa deciderà la riunione convocata ieri sera – che Conte debba fare marcia indietro. Comunque “correggere” e “modificare” la sua proposta in modo di “includere maggiormente la politica”.

Il premier ieri mattina ha confermato tutto in una intervista al Corriere della sera: «La tecnostruttura avrà poteri sostitutivi e se il progetto non procede come deve subentrerà il commissario. Individueremo il meglio del Paese, persone con forti competenze». Che non sono al governo né in Parlamento.  Da due giorni Conte si trova tutti contro. Tra le forze di opposizione, con cui ci dovrebbe essere “collaborazione” per cui «la task force di 300 persone è il solito carrozzone per dare qualche poltrona in più alla maggioranza». Il nient arriva anche da una forza di maggioranza come Italia viva: «Task force? No grazie – stoppa i giochi Ettore Rosato – ne abbiamo già avuto abbastanza. La cabina di regia per l’attuazione del Recovery Fund è il governo con i suoi ministri e il Parlamento». Non va meglio nelle file del Pd il cui segretario, a sentire il premier, avrebbe dato il via libera alla “piramide” in nome della “collegialità”. Ma Conte deve aver capito male se anche dal Pd, o almeno alcune sue correnti, da Base Riformista ai fedelissimi del capogruppo Graziano Delrio, non si ha timori nel dire che «questa roba non ha futuro: la logica della task force è sbagliata visto che gran parte dei ministri restano esclusi».

Succede tutto nel fine settimana. Il solito fine settimana di riunioni, vertici e consiglio dei ministri, per lo più da remoto, in piccola parte in presenza, in cui vengono prese decisioni importanti per lo più “col favore delle tenebre” visti gli orari di palazzo Chigi. Sabato sera alle 20 e 30 una nota di palazzo Chigi ha comunicato la grande novità. L’attuazione dei progetti finanziati con i 209 miliardi del Recovery fund saranno gestiti da una piramide che alla base vede una task force di 300 tecnici, 50 per ciascuno dei sei manager (uno per ogni pilastro del piano). La task force – i sei manager sarebbero il top management di società pubbliche e private – riferiscono al Comitato interministeriale affari europei e ad un superiore organo politico composto dal premier Conte, dal ministro dell’Economia Gualtieri dal ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. I sei manager avrebbero poteri sostitutivi rispetto ai soggetti attuatori. Il ministro Enzo Amendola, che sta curando la costruzione del dossier da presentare a Bruxelles a gennaio, sarebbe delegato ai rapporti con Bruxelles.

Una struttura che, come fanno notare ampi settori nel Pd, «esclude il Parlamento e gli stessi ministeri» e che vede il premier «padrone assoluto» della piramide. Il contrario di quello che Conte si era impegnato a fare nella risoluzione votata a settembre con cui Camera e Senato dettero il via libera alle Linee guida del Piano. La parola “rimpasto”, convitato di pietra di tutte le conversazioni negli ultimi giorni, resta la più quotata. Delle due l’una, è il ragionamento neppure troppo sotterraneo condiviso da parti di Pd, Iv e Cambiamo di Carlo Calenda: «Se i ministri sono così capaci tanto che è assurdo parlare di rimpasto, allora tanto vale affidare a loro il Piano. Se invece non sono idonei al Piano, significa che parlare di rimpasto non è fuori luogo».

Per il bene del Paese. E non per «sfamare le ambizioni personali» come ha detto Conte nell’intervista (smentita in questa parte).  Il compromesso potrebbe essere una sorta di super commissario per coordinare i sei manager e i loro 300 esperti. Gira anche un nome per l’incarico di sottosegretario o ministro al Recovery: il vicesegretario dem Andrea Orlando. L’emendamento alla legge di Bilancio con la norma ad hoc sarebbe già scritto.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.