La crisi della democrazia
Referendum bocciati, la casta della Consulta si scaglia contro la volontà popolare
La “Costituzione più bella del mondo” ha un limite. Evidente. Favorisce la formazione di una casta di mandarini, esclusivi padroni, a dispetto di ogni principio democratico, dei destini del paese. L’ultima prova è stata offerta dalle decisioni della Corte costituzionale sui referendum. Basta, a titolo di esempio, citare la motivazione con cui il presidente ha dato conto, in conferenza stampa, delle ragioni della dichiarazione di inammissibilità del referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Esso sarebbe stato innovativo e non meramente abrogativo.
Una sottigliezza utile ad impedire lo svolgimento di qualsiasi referendum, che non si limiti a chiedere l’abrogazione di una norma innovativa rispetto alla tradizione precedente. Del resto, perché, allora, non è stato ritenuto innovativo, ad esempio, il referendum volto ad ottenere la separazione delle funzioni tra giudici e pm, atteso che tale separazione non è nella tradizione giuridica italiana? Le decisioni della Corte costituzionale si inseriscono in un quadro istituzionale ed in un momento politico poco attenti alla volontà popolare. La Costituzione italiana non riconosce al cittadino reali strumenti di partecipazione, al di là del mero momento elettorale. Per restare al tema dei referendum, gli stessi possono essere solo abrogativi, e si è visto con quale facilità possono essere bloccati, e non propositivi. È vero che la Costituzione ammette le iniziative di legge popolare, quando sottoscritte da almeno 50.000 elettori, ma la relativa approvazione è riservata pur sempre al Parlamento e non al corpo elettorale.
La storia della Repubblica testimonia quanto scarsa sia stata la incisività di tale previsione. Ancora, al cittadino italiano non è neppure consentito di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale per denunciare una possibile lesione delle regole costituzionali da parte di una legge votata dal Parlamento. Sarà necessario che della applicazione di quella legge si discuta in un giudizio, di cui lo stesso sia parte, e, soprattutto, che della esistenza di una possibile lesione sia convinto anche il giudice, innanzi al quale pende il giudizio. Al cittadino italiano non è neppure consentito di scegliere il Capo dello Stato, nonostante il potere crescente che, nelle pieghe del dettato costituzionale, questa figura ha progressivamente acquisito nella vita delle istituzioni. In conclusione, la democrazia si risolve, per il cittadino italiano, esclusivamente nella attribuzione di un potere di delega, in sede elettorale, salvo l’eccezione, suscettibile come si è visto di notevoli limitazioni, del potere di promuovere i referendum abrogativi. Si tratta di una situazione, che era certamente coerente con il quadro sociale e politico esistente al momento della approvazione della Carta costituzionale, e a lungo mantenutosi negli anni successivi, ma che non è più adeguato alla realtà odierna.
Quando fu approvata la Costituzione, la struttura democratica del paese si articolava intorno ai partiti. I quali, essendo, a loro volta, muniti di una organizzazione democratica interna, erano un naturale strumento di partecipazione dal basso alla vita politica del paese. Il momento centrale della loro vita erano i congressi, nei quali l’aspetto partecipativo era esaltato sotto un duplice aspetto. Da un lato, i delegati al congresso avevano raccolto la loro legittimazione nelle singole sezioni e, perciò, erano diretta espressione di una democrazia che partiva dal basso. Dall’altro, nei congressi i partiti erano contendibili. E, perciò, il consenso che veniva raccolto nelle sezioni non aveva un valore meramente formale. Si trattava, certamente, di una struttura costosa, non solo sul piano delle energie umane, ma anche sotto il profilo economico. Era, tuttavia, capace di accorciare la distanza tra cittadini ed istituzioni attraverso la mediazione della politica. Mani Pulite ha spazzato via tutto questo. Ma non solo Mani Pulite. I nuovi mezzi di comunicazione hanno dato a ciascuno l’illusione di un rapporto diretto tra cittadino e leader. Questa illusione ha permesso, almeno per un lungo periodo, di guardare senza rimpianti alla trasformazione dei partiti, da cinghia di trasmissione del volere popolare, a mere strutture di potere.
Anche la lotta politica si è trasformata, sotto molti aspetti, da contrapposizione tra diverse visioni della società a contrapposizione tra leader e a lotta per la demolizione del leader avversario. Il colpo finale si è avuto con l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti voluto dal Governo Letta. Ma è evidente che è una situazione destinata, prima o poi, ad esplodere perché genera un disagio sempre più profondo, di cui, molto probabilmente, il consenso raccolto dai 5Stelle è stato un segnale. È inevitabile, difatti, che il confronto tra la teorica possibilità di interloquire con chiunque e di dire pubblicamente la propria opinione su tutto, che danno i social, e la propria sostanziale totale irrilevanza, che ciascuno deve poi registrare nella effettiva vita delle istituzioni, genera frustrazione Si aggiunga, anche, che il costante sforzo di molte forze politiche, tipico della postdemocrazia, di sottrarsi il più possibile alla verifica elettorale, cercando solo di intercettare gli umori popolari del momento, invece che di raccogliere il consenso intorno ad un disegno di società, è un potente moltiplicatore di superficialità ed un formidabile ostacolo a qualsiasi prospettiva di governo organico del paese.
Di fronte a tutto questo, è poco plausibile cercare di far tornare indietro il nastro della storia. La via, se non si vuole assecondare una deriva autoritaria, non può che essere quella di dare molto più spazio alla voce dei cittadini non solo sui social. Il rischio è la crescita del populismo, ma va combattuto facendo crescere il livello collettivo di consapevolezza. E questo non può che avvenire dando un ruolo attivo, e perciò anche responsabilità, ai cittadini. Va restituita sacralità alla volontà popolare. Altrimenti la solenne affermazione dell’art. 1 della Costituzione, secondo cui la sovranità appartiene al popolo, è pura demagogia. Del resto, la vicina Svizzera è un esempio di come i referendum siano una strada per una crescita costante e duratura della maturità dei suoi cittadini.
La Corte costituzionale, con le sue recenti dichiarazioni di inammissibilità, ha certamente depotenziato la prossima campagna referendaria e, non permettendo che si svolgano quelli più attesi (su eutanasia, cannabis e responsabilità civile diretta dei magistrati), è riuscita, forse, addirittura ad impedire che i referendum raggiungano il quorum. È stata sapienza giuridica o modesto virtuosismo? Molte ragioni, comunque, inducono a ritenere che, così facendo, abbia dato un contributo, nient’affatto marginale, ad un ulteriore allontanamento dei cittadini italiani dalle istituzioni democratiche. Si tratta di una distanza che è difficile colmare, come testimoniano gli altissimi tassi di astensione negli appuntamenti elettorali. Su questo vuoto si regge una casta, sempre meno ispirata dai valori democratici.
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