Il bivio decisivo
Referendum del 12 giugno, perché le carriere di giudici e pm vanno separate
La notizia ha meritato non più di un trafiletto sul Fatto quotidiano, quasi fosse routine. Come fosse nella normalità della giustizia quotidiana il fatto che la Procura di Milano, dopo lo schiaffo sonoro del proscioglimento di Attilio Fontana “perché il fatto non sussiste” per la vicenda camici, stia preparando il ricorso in appello. Che cosa è: testardaggine, affezione all’ipotesi accusatoria, accanimento, vendetta? O si tratta invece della famosa “cultura della giurisdizione”, l’unico argomento di cui sono capaci le toghe del no (o del tuffo in mare) sulla separazione delle funzioni tra chi accusa e chi giudica? È il referendum numero 3 di domenica prossima, quello su cui voteremo SI, come sugli altri quattro.
Ce la ripetono tutti i giorni, la tiritera: se noi ancoriamo il pubblico ministero al suo ruolo di accusatore, senza consentirgli di passeggiare qua e là, un giorno ti accuso e un altro giorno ti giudico, e chi se ne frega del difensore, quel paria, e non gli consentiamo anche si sedersi sullo scranno più alto, il pm non assorbirà mai la “cultura della giurisdizione”. Come se oggi, visto che la passeggiata può essere ripetuta fino a quattro volte, avessimo sotto i nostri occhi intere generazioni di pubblici ministeri che si affannano a cercare anche le prove a favore dell’indagato, sulla base del “ragionevole dubbio” che dovrebbe sempre albergare nella mente di ogni magistrato. Il caso Fontana, così come quello del processo Eni, non è scelto a caso. Perché riguarda il presidente della Regione più importante e popolosa d’Italia, la Lombardia, perché va a toccare un tema sensibile come quello dei due anni appena trascorsi con il virus e le sue vittime, perché è iniziato come processo mediatico. Avrebbe meritato più di altri che i pm dimostrassero quella “cultura della giurisdizione” di cui si sarebbero abbeverati mentre transitavano da un ruolo all’altro.
Così, solo perché chi dovrà decidere come comportarsi il 12 giugno veda che cosa comportano le carriere unificate o separate dei magistrati, partiamo da questi due esempi concreti, il “caso Fontana” e il “caso Eni”. Poiché non conosciamo altri argomenti in favore del no (o del tuffo in mare) se non quello trito e ritrito del pm che deve essere un po’ bifronte, accusatore ma anche difensore al contempo, vediamo come si sono comportati a Milano gli accusatori del presidente Fontana da un lato e quelli che hanno portato alla sbarra i vertici Eni dall’altro. Così i nostri lettori potranno decidere sulla base di fatti concreti. Se dovessero vincere il no o il tuffo in mare andrà in un certo modo. Se invece ci sarà il trionfo dei SI, le cose saranno diverse.
Caso Fontana. “Cultura della giurisdizione” uno. Il 9 luglio 2020 la Procura di Milano fa sapere di aver “acceso un faro” sul presidente della Regione Lombardia sulla base di notizie sciorinate da un servizio-gogna della trasmissione Report. “Cultura della giurisdizione” due. Attilio Fontana viene sottoposto a indagini e accusato di aver frodato la Regione da lui amministrata, in seguito al regalo del cognato di una serie di camici e presidi sanitari in quel momento introvabili. Nasce anche la giustizia creativa, con il reato di “frode in donazione”. Cultura della giurisdizione” tre. L’indagine si estende presto a tutta la famiglia Fontana, con un sospetto di aggiotaggio su un conto svizzero. Sarà una giudice, la gip Natalia Imarisio, a dare la prima lezione ai pm con l’archiviazione di questa parte dell’inchiesta. È la prima sconfitta della Procura e del suo settore reati contro la Pubblica Amministrazione diretto da Maurizio Romanelli, il candidato superato da Marcello Viola nel ruolo di Procuratore capo di Milano.
La “cultura della giurisdizione” cinque vede ancora all’opera il dottor Romanelli con gli aggiunti Paolo Filippini e Carlo Scalas impegnati a chiedere che il presidente Fontana venga mandato a processo. Ed è a questo punto che interviene un’altra giudice, la gup Chiara Valori, a prosciogliere tutti gli imputati perché “il fatto non sussiste”. Cioè, a partire da quel 9 luglio 2020 – e sono passati due anni- nulla avrebbe dovuto succedere negli uffici della Procura, perché nulla di illegale era accaduto, se non nella fantasia di qualche giornalista morboso sempre a caccia di quei torbidi retroscena che quasi mai esistono. Dove è finita dunque la mitica “cultura della giurisdizione” dei pubblici ministeri? Nella polvere di una sconfitta, che paghiamo noi tutti, ogni giorno. È urgente andare a votare SI per la separazione delle funzioni e tutti gli altri referendum. Perché la decisione della Procura di Milano (aspettiamo sempre, fiduciosi, qualche segnale di inversione di rotta da parte del neo-procuratore capo Marcello Viola), dopo il doppio schiaffo ricevuto da due diverse giudici, di ricorrere in appello, puzza più di accanimento che di “cultura della giurisdizione”.
Se il “caso Fontana” è intervenuto nel mondo della politica –e non dimentichiamo mai quante volte fatti come questo hanno poi determinato capovolgimenti elettorali, da una parte e dall’altra- quello che ha colpito la dirigenza passata e presente dell’Eni è penetrato direttamente nella carne viva dell’economia e di alcune relazioni internazionali. Il protagonista assoluto in questo caso è il procuratore aggiunto, sempre di Milano, Fabio De Pasquale. Il quale è indagato a Brescia per “rifiuto di atti d’ufficio”, oltre che oggetto di attenzione da parte della prima sezione del Csm, che dovrà decidere una sua eventuale incompatibilità con la permanenza in procura a Milano. Questo caso –naturalmente se l’accusa dei colleghi di Brescia fosse dimostrata fondata- potrebbe diventare un esempio di scuola a favore della separazione non solo delle funzioni ma proprio delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Perché saremmo nella situazione in cui il pubblico ministero, pur avendo a disposizione indizi a favore degli imputati, li avrebbe nascosti. Contravvenendo a quanto impone il codice. Di questo si occuperà la giustizia penale del tribunale di Brescia.
Ma qualche altra osservazione può essere avanzata. Perché il dottor De Pasquale, nonostante la grande eco mediatica di quel processo su cui la procura allora diretta da Francesco Greco aveva investito la propria reputazione e nonostante aver subito una sentenza assolutoria, non si è arreso, ma ha proposto appello e ha chiesto di sedere di nuovo lui, personalmente, ad accusare ancora Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri ex imputati ora assolti del primo processo. Sorvoliamo per un attimo sul fatto che la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni non abbia concesso a De Pasquale il secondo round, ritenendo più opportuno che sia un’altra magistrata, Celestina Gravina, a svolgere il ruolo dell’accusa al processo che sarà celebrato nel prossimo autunno. La domanda che dobbiamo rivolgere a noi stessi, prima che al dottor De Pasquale, è la seguente: siamo certi che questo prestigioso pubblico ministero, nello svolgere il proprio compito, abbia mostrato di possedere quella “cultura della giurisdizione” per cui ciascuno di noi dovrebbe stare tranquillo se un domani ce lo trovassimo davanti nel ruolo di giudice? Magari insieme al dottor Romanelli del caso Fontana?
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