Decenni di tentativi falliti di riforme istituzionali e poi, all’improvviso, basta un emendamento, approvato nottetempo in commissione all’unanimità, per introdurre quella che forse è destinata a diventare la più importante innovazione materialmente costituzionale della legislatura. Mi riferisco ovviamente a quella che, con felice neologismo, il collega Clementi ha definito spid-democracy, e cioè la possibilità di sottoscrivere in forma digitale le richieste di referendum (abrogativi, costituzionali e territoriali) e le iniziative legislative popolari. Ennesima dimostrazione di come riforme apparentemente marginali (penso ad esempio alla limitazione del voto segreto nelle camere e, temo, alla prossima riduzione del numero dei parlamentari) possano produrre invece rilevanti effetti di sistema.

La gran parte delle reazioni a tale riforma sono improntate a grande preoccupazione perché si teme che essa, facilitando la raccolta delle firme, permetterà al singolo di sottoscrivere dal “tinello” di casa sua, senza confronto e, quindi, in modo potenzialmente non meditato e emotivo, un profluvio di richieste referendarie, magari su temi minori o, peggio, controversi a scapito di quelli più importanti (chi stabilisce che siano tali?), alterando così il delicato equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (meglio: partecipativa) delineato in Costituzione. Mi sembrano preoccupazioni dettate da una certa altezzosa diffidenza sulla maturità degli elettori che da sempre alligna in una certa intellighenzia di sinistra, che ebbe già a manifestarsi in occasione delle c.d. infornate referendarie radicali degli anni Novanta e che oggi si ripropone in quella che, con malcelato disprezzo, è definita democrazia del click e che forse meriterebbe minori pregiudizi.

Perché, ad esempio, chi sottoscrive da casa un referendum sarebbe per ciò stesso meno informato e più umorale rispetto a chi lo fa presso un banchetto, dato che anche in questi non si disdegna certo il ricorso a facili slogan? Da qui, la pavloviana reazione di aumentare il numero delle firme occorrenti per chiedere un referendum da 500 a 800mila, perché dal 1948 il numero gli elettori è aumentato. Proposta inutile e sbagliata. Inutile perché, quando il tema è avvertito dall’opinione pubblica, come dimostra il repentino successo (specie tra i giovani) dei quesiti sull’eutanasia o sulla cannabis, il quorum verrebbe comunque raggiunto grazie alla firma digitale (ovviamente vale anche il contrario). Sbagliata perché il quorum in Costituzione è previsto non come asticella da poter aumentare a dismisura ma per dimostrare l’esistenza di un significativo consenso sul quesito che si vorrebbe sottoporre all’intero corpo elettorale. Se è vero che in politica non esistono vuoti, il successo dei referendum su tali temi dipende dalla incapacità del Parlamento di decidere su di essi. E quando un paziente (il Parlamento) ha la febbre, inutile prendersela con il termometro (richieste di referendum).

La democrazia rappresentativa non si difende arroccandosi ma rispondendo e valorizzando la domanda di partecipazione politica che è emersa in modo così prorompente in questi giorni dalla società civile. Chi critica il referendum in sé per la sua logica dilemmatica (sì/no) in temi su cui si dovrebbe usare la lima anziché l’accetta, non può non convenire che tutti i tentativi per volgere in senso propositivo la volontà degli elettori sono falliti perché il Parlamento li ha sempre sdegnosamente ignorati. Così è stato a inizio legislatura per la proposta di referendum propositivo, che se meglio congegnata avrebbe potuto essere un importante stimolo per l’attività parlamentare. Così è per i disegni di legge d’iniziativa popolare, che giacciono nei cassetti delle commissioni parlamentari, anche al Senato dove la riforma del 2017 che ne prevedeva la discussione in Aula dopo tre mesi dall’assegnazione in commissione per evitarne l’insabbiamento è sostanzialmente fallita.

Ed è appena il caso qui di ricordare quante volte il Parlamento ha disatteso gli inviti, più o meno perentori, della Corte costituzionale su temi di estrema rilevanza (cognome materno, carcere ai giornalisti, ergastolo ostativo per i mafiosi che non collaborano con la giustizia), fino ad arrivare, per restare ai temi etici, al caso Cappato dove, nell’anno di tempo assegnato dalla Corte, il Parlamento non è riuscito a legiferare su un tema così socialmente avvertito come il suicidio assistito. Allora è inutile elevare alte grida contro i referendum che minacciano la centralità del Parlamento se poi nel contempo si nega che vi è un problema d’incapacità decisionale, cui si rimedia a prezzo di forzature procedurali (come avvenne per la legge sulle unioni civili e come rischia di accadere sul ddl Zan). Erigere muri o ideare nuovi steccati per ostacolare le richieste referendarie è la peggiore risposta che si possa dare alla domanda di partecipazione politica che esse esprimono e che va governata e valorizzata, anziché frustrata, a beneficio delle stesse istituzioni parlamentari.

È in questa prospettiva di sistema, allora, che si può e deve discutere di referendum, anche per introdurre talune modifiche procedurali. Ad esempio, come da tempo proposto, è senz’altro opportuno rapportare il quorum non agli aventi diritto ma ai votanti delle ultime elezioni politiche per evitare che i contrari puntino all’astensionismo anziché misurarsi con i favorevoli. Analogamente, può essere opportuno anticipare il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale quando su una richiesta referendaria si è già manifestato un certo consenso (ad esempio se si sono raccolte metà delle firme previste). Ciò, però, non per sottrarre la Corte alla pressione degli elettori che hanno sottoscritto in massa un certo quesito (forse da ingenui, vogliamo credere che la Corte, come ha la forza di dichiarare illegittima una legge approvata dalla maggioranza parlamentare, sappia negare l’ammissibilità di una richiesta referendaria formulata comunque da una minoranza, per quanto “rumorosa”) ma per semplificare la procedura, evitando incertezze ed inutili dispendi di energie, soprattutto in considerazione del fatto che, in tema di ammissibilità, il giudizio della Corte è ormai imprevedibile.

Quella sul giudizio di ammissibilità mi sembra, infine, la preoccupazione più seria. Oggi la Corte ammette il referendum anche se dalla sua approvazione scaturirebbe una disciplina di quantomeno dubbia costituzionalità. Si pensi, ad esempio, all’attuale richiesta referendaria sull’eutanasia che se approvata, porterebbe all’esito, intrinsecamente irragionevole, per cui lo sparare a una persona in buona salute che vuole morire non sarebbe reato perché omicidio del consenziente mentre sarebbe colpevole chi gli porgesse la pistola per uccidersi perché sarebbe aiuto al suicidio. Tale distinzione tra giudizio di ammissibilità e giudizio di incostituzionalità è stata finora giustificata confidando in successivi interventi per rimuovere esiti illegittimi: una modifica parlamentare; l’interpretazione costituzionalmente conforme dei giudici in sede applicativa; al limite la sentenza d’incostituzionalità della stessa Corte.

Ma è altrettanto vero che si tratta di ipotesi eventuali, in attesa delle quali la normativa incostituzionale potrebbe produrre effetti, magari irreversibilmente lesivi dei diritti delle minoranze, nonostante in certa misura previsti e non impediti dalla Corte costituzionale. Per evitare ciò, più che una (improbabilissima) modifica costituzionale, forse occorrerebbe che la Corte mutasse la propria giurisprudenza per svolgere in sede d’ammissibilità un controllo diretto a prevenire esiti referendari di manifesta incostituzionalità. Tutte proposte che riprendono riflessioni già da tempo maturate e che non sono certo frutto dell’allarme del momento. Perché anche in questo caso la migliore difesa è l’attacco.