In un paese in cui la politica è palesemente incapace di grandi riforme, preferendo gli adattamenti pratici in frode alla Costituzione (basti pensare ai decreti-legge che sono ormai da decenni strumento ordinario, e pressoché unico, di legislazione) ogni tanto c’è qualche buona notizia. L’ultima riguarda la disciplina del referendum. Anzi no, la disciplina dei referendum e dell’iniziativa legislativa di legge popolare, anche costituzionale. E non è cosa di poco conto.

Due emendamenti al Dl semplificazioni hanno appunto semplificato, e di molto, la vita dei promotori delle iniziative popolari. Come sappiamo, da un lato hanno previsto la sottoscrizione digitale delle proposte (che per i referendum debbono essere almeno 500mila) e, dall’altro, hanno reso più agile la fase di raccolta, presso gli 8mila comuni italiani, dei certificati elettorali da allegare alle firme. L’incubo finale dei promotori che entro tre mesi dall’inizio della raccolta debbono depositare tutta la documentazione completa presso la Cassazione.

La digitalizzazione delle fasi più complesse della procedura è destinata a produrre effetti rilevantissimi. Perché in questa materia, semplificare è tutto. Quando fu finalmente attuato l’art. 75 della Costituzione, con la legge 352 del 1970, il legislatore, chiaramente diffidente e preoccupato degli effetti di tale strumento, fece di tutto perché le nuove regole più che un procedimento creassero una corsa a ostacoli: raccolta delle firme solo in tre mesi, divieto di depositare richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere e nei sei mesi successivi alle elezioni, svolgimento del referendum solo in una domenica tra aprile e maggio; rinvio del referendum in caso di scioglimento anticipato. E chi più ne ha più ne metta.

Malgrado ciò, in molte occasioni dal 1970 a oggi, i referendum hanno rappresentato fatti politici decisivi per imprimere cambiamenti storici: non solo rispetto ai diritti civili (quelli sono arcinoti), ma anche per scelte politiche in grado di sgretolare chiusure corporative che avevano paralizzato la politica. Quelle del sindacato (il referendum sulla scala mobile); della magistratura (la responsabilità civile dei giudici); del sistema radiotelevisivo (privatizzazione della Rai); della stessa classe politica (il finanziamento pubblico e, soprattutto, il cambiamento in senso maggioritario della legge elettorale). E si potrebbe continuare. Ciascuno può legittimamente valutare come ritiene il merito di queste scelte, ma non vi sono dubbi che esse abbiano cambiato il corso delle cose. Tanto da essere talvolta rapidamente neutralizzate dal legislatore successivo.

Meno efficaci sono state le iniziative di legge popolare, perché, per esse, la Costituzione non prevede un obbligo di esame da parte della Camere. Lacuna alla quale tenta di porre rimedio adesso il regolamento del Senato che impone entro pochi mesi l’iscrizione d’ufficio nel calendario dei lavori dell’Assemblea. Almeno questo. La possibilità di raccogliere le firme in modo più spedito non rende solo più semplice il procedimento, grazie alla digitalizzazione, ma può esaltarne il significato politico. Se prima raccogliere 500mila firme per il referendum, o 50mila per un disegno di legge, era un traguardo diciamo così “agonistico”, adesso è virtualmente possibile che la raccolta raggiunga cifre di consenso assai più elevate. Cifre che non sarà così facile ignorare da parte del legislatore. Le opportunità sono pertanto notevoli, soprattutto là dove si riescano a incrociare temi politicamente importanti e verso i quali le istituzioni rappresentative non si dimostrano abbastanza recettive.

Ciò non toglie che possano esservi anche effetti negativi. Il primo rischio è quello di un’inflazione per eccesso di iniziative, con reazioni di rigetto da parte del corpo elettorale. È quanto è avvenuto in una certa fase della storia referendaria, là dove i referendum sono apparsi delle sassaiole lanciate contro la sordità dei Palazzi della politica, ma che, nei fatti, hanno suscitato l’effetto di frustrare i cittadini, i quali, in fondo, pagano i parlamentari per fare, e fare bene, il loro mestiere. Il secondo rischio è che referendum e leggi popolari alimentino pulsioni meramente antipolitiche e si concentrino sui temi più demagogici, finendo per delegittimare ancora di più le istituzioni rappresentative, senza significativi effetti riformatori. Il confine è labile, perché è certamente vero quanto disse Luigi Einaudi in Assemblea costituente: «Non si può essere sempre sicuri che i disegni di legge approvati dal Parlamento rappresentino veramente la espressione della volontà popolare; rappresentano la volontà di un ceto politico, ma questa non sempre coincide con quella del popolo». È anche vero, però, che, la nostra Costituzione vede la democrazia diretta come un fondamentale “correttivo” della democrazia rappresentativa, non come il suo becchino.

Neutralizzare la nuova disciplina non sarà facile. Alzare i limiti delle firme, ad esempio, (così come abbassare i quorum di validità del voto, purtroppo) richiede modifiche della Costituzione: improbabile. Ma la tentazione sicuramente ci sarà, anche utilizzando, magari, l’alibi dell’antipopulismo. La politica ha, come sempre, una grande responsabilità: o sceglie di reagire difensivamente, provando a “svuotare” gli effetti di quella che, soprattutto in tempi di vacche magre, può rappresentare una delle più importanti riforme istituzionali recenti, oppure mostra il coraggio di “rilanciare”, rendendo più efficiente, e reattiva, la democrazia rappresentativa rispetto alle istanze dei cittadini e facendo le riforme istituzionali che aspettiamo da decenni. Certo, c’è anche una terza ipotesi. Che una politica debole e smarrita si accodi acriticamente al nuovo corso e vada alla ricerca del consenso cavalcando gli umori popolari. Non ci vorrà molto per capire che piega prenderanno le cose. Che il Parlamento abbia battuto un colpo, intanto, è una buona notizia.