Giorgia Meloni è dunque ad un passo dal piantare la prima bandierina del suo ircocervo preferito, il premierato elettivo, nel corpo della Costituzione col primo voto al Senato. Della “madre di tutte le riforme” la presidente del Consiglio ha parlato parecchio dall’inizio della legislatura, aderendo ad una postura ri-costituente che spesso sembra ammaliare i capi di governo italiani dalla seconda repubblica in poi, perché quelli della prima – Bettino Craxi a parte – sembravano alquanto paghi di quel che avevano fatto i costituenti e non amavano molto manomettere l’impianto ordinamentale.

Meloni ne ha parlato anche nel salotto buono della Maggioni, su Rai Tre, chiarendo che, in caso di ricorso referendario – ipotesi che com’è noto è previsto dalla Costituzione se la riforma non riesce a raccogliere nella seconda votazione la maggioranza dei due terzi in Parlamento – accetterebbe il verdetto del voto popolare senza battere ciglio, anche se fosse una sconfitta. Insomma non si dimetterebbe come fece Renzi facendosene carico politico per aver assunto sulle sue spalle l’onere della proposta bocciata dagli elettori. Hic manebimus optime, non fatevi illusioni, dice a chiare lettere la premiere dame. Chiarita preventivamente la questione, diciamo così, di stile, domandiamoci che cosa possiamo aspettarci da un eventuale voto referendario, lasciando da parte le risorse divinatorie ma concentrandoci essenzialmente sull’andamento del voto nelle precedenti consultazioni.

Com’è noto il referendum è un istituto di democrazia diretta che l’ordinamento giuridico mette a disposizione per più cose: c’è quello abrogativo, previsto dall’art.75 della Costituzione per cancellare in tutto o in parte una legge o un atto avente valore di legge, strumento abbastanza usato (72 volte) grazie soprattutto alla prassi politica radicale; c’è anche il referendum “istituzionale”, che nel lontano ‘46 portò gli italiani a preferire la Repubblica alla Monarchia (adoperato, ovviamente, solo in quella occasione); c’è stato pure un referendum d’indirizzo, nel 1989, per conferire al parlamento europeo il mandato costituente, dichiarando con l’88% dei sì (e l’80 % degli aventi diritto recatisi alle urne) la nostra incrollabile fede europeista (tempi lontani anni-luce, sembrerebbe); c’è, inoltre, il referendum costituzionale, previsto dall’art.138 della Costituzione, quello che, appunto, potrebbe tenersi per confermare o bocciare la riforma “madre di tutte le altre”, che ha avuto quattro precedenti nella storia repubblicana, a partire dal 2001. Ecco, allora la domanda, che cosa dice la storia ultraventennale dei referendum costituzionali?

Piccola premessa: potrà apparire sorprendente, ma questo importante strumento di democrazia diretta, chiamato in causa dai costituenti per correggere effetti indesiderati della democrazia delegata, in realtà ha quasi sempre confermato l’orientamento prevalente delle forze politiche sostenitrici o oppositrici della scelta referendaria. Così, tanto per capirci, fu con il referendum abrogativo del divorzio cinquant’anni fa, che approvò il mantenimento della legge Fortuna-Baslini con il 59,3%, a fronte del 40,7%, essendo quest’ultimo valore il frutto della confluenza dei consensi di solo due partiti, la Dc e il Msi, (con qualche punticino percentuale perso), a fronte del resto del mondo, rappresentato dallo schieramento di tutti gli altri partiti, divorzisti.

Torniamo allora ai referendum costituzionali. La vulgata dice che gli italiani abbiano manifestato una tendenza al conservatorismo costituzionale valutando il merito dei quesiti proposti. A noi sembrerebbe che sia sempre prevalso, piuttosto che il merito, la questione politica sul sì o il no al governo “proponente” la riforma costituzionale, allineando consensi e dissensi che, ancora una volta confermavano la forza degli schieramenti. Una verifica? Nel primo referendum costituzionale, quello del 2001, si votava pro o contro la riforma del titolo V della Carta che devolveva maggiori poteri alle regioni (rendendo possibile l’autonomia differenziata di cui si discute oggi). Venne approvata, a fronte di una bassissima affluenza (solo il 34%). A ben vedere l’area del centrosinistra, implementata dagli oppositori del governo Berlusconi in carica, si equivaleva a quella del governo (oltre 18 milioni di voti raccolti alle politiche di qualche mese prima).

Ma nel governo Berlusconi c’era anche la Lega di Bossi (coi suoi 1,5 milioni di voti) che, pur non sostenendo ufficialmente la riforma, neanche l’osteggiava, considerando i suoi contenuti. Nel 2006 toccò alla riforma Berlusconi, un’ampia rivisitazione degli assetti di governo guardando a suggestioni presidenzialistiche: non passò, prevalendo l’alleanza di centro sinistra al governo e il poco entusiasmo degli alleati di Silvio Berlusconi. Dieci anni dopo toccò a Matteo Renzi con la sua grande riforma istituzionale: perse con il 40,88% contro il 59,12: a ben vedere le stesse percentuali di Fanfani col divorzio. Dalla sua aveva un PD al 40,81 delle europee del 2014, che andò a combaciarsi perfettamente. Infine il taglio dei parlamentari del 2020: quasi il 70% degli italiani disse sì. E, in fondo, si trattò dell’unico risultato che fece registrare una certa ribellione all’orientamento della politica: tutti i partiti erano d’accordo. Alla Camera solo 14 deputati (contro 553 favorevoli) votarono contro. Solo il 2,4%, dunque. Gli italiani che dissero no furono più del 30%. Come dire: “Se i politici fanno qualcosa che può piacere alla gente gatta ci cova…”.

Pino Pisicchio

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