Molti italiani, inclusi moltissimi campani, non sanno ancora che il 20-21 settembre si svolgerà un referendum che ha a oggetto l’entrata in vigore di una modifica della Costituzione, per quanto limitata. La Costituzione davvero non meriterebbe una campagna referendaria frammista a un impegnativo turno elettorale di molte amministrazioni locali e, soprattutto, di elezioni regionali, che sono pur sempre elezioni fortemente connotate politicamente. Ci troviamo quindi nella necessità di parlare del ruolo del Parlamento in condizioni difficili, eppure è importante farlo. La revisione è infatti già stata deliberata dalle Camere e il referendum in questione, a differenza di quelli abrogativi, sarà comunque valido. Un atteggiamento astensionista non ha dunque ragion d’essere (almeno quale strategia consapevole) e assume un rilievo particolare la capacità di intercettare i motivi fondamentali a sostegno delle due posizioni per esprimere un voto il più possibile informato. In queste sede vorrei intrattenermi sul peso di questo referendum sul Mezzogiorno, sulla scia dell’arguta riflessione che Renato Brunetta ha svolto sul Quotidiano del Sud.

La revisione costituzionale opera una mera riduzione del numero dei parlamentari nella misura del 36,5%, portando i deputati a 400 e i senatori a 200. Difficile sottrarsi, almeno fino a qualche tempo fa, a questa suggestione. Eppure anche un semplice “taglio” non ha nulla ovvio o semplice, ma cala in un contesto nel quale ha delle ricadute sistemiche. Ne sottolineo alcune secondo me particolarmente negative per il Mezzogiorno d’Italia. Intanto questa parte d’Italia è assai meno densamente popolata del centro e soprattutto del Nord. Un numero ridotto di parlamentari dovrebbe rappresentare la popolazione meridionale giocoforza con un rapporto assai meno favorevole in termini di rapporto popolazione/territorio.

Un collegio elettorale, a parità di rapporto tra elettori ed eletti, sarà molto più grande nel Sud, quindi i parlamentari meridionali avranno maggiori difficoltà a tenere i rapporti con i territori da rappresentare che saranno più ampi. In pratica, al fuori delle poche aree metropolitane e anche già per la Campania, pur popolosa, non solo avremo meno parlamentari ma verranno anche messi in condizione di lavorare peggio. Se partiamo dal presupposto che la rappresentanza è cattiva, inutile parlarne; a quel punto, però, è inutile parlare anche di Parlamento e Costituzione. Ma chi crede nell’unica versione realistica della sovranità popolare, quella che passa quasi in toto tramite i rappresentanti eletti nelle istituzioni, non può non preoccuparsene. Il punto non è avere meno parlamentari ma averne di migliori, e questo referendum non tocca affatto questo aspetto.

Anzi se non peggiora la qualità dei parlamentari peggiora sicuramente le loro capacità di lavoro. Inoltre, secondo argomento, questo taglio per fattori tecnici non opera in modo davvero lineare, perchè colpisce alcune regioni rispetto ad altre. Anche su questo punto, senza soffermarsi troppo, le regioni meridionali sono più penalizzate, dati alla mano, dalla riduzione del numero dei parlamentari. Già oggi partiti anche grandi non sono possono rappresentare in Parlamento le Regioni come il Molise e la Basilicata. In futuro questo fenomeno diventerà sistematico privando il Parlamento di fondamentali sensibilità (si immagini le ricadute sul campo della sanità, ove prevalgono visioni molto divaricate tra le parti politiche). Più in generale la Basilicata, per esempio, si troverebbe la sua pattuglia di parlamentari più che dimezzata (altro che 36,5%) e danni significativi toccherebbero anche le altre regioni medio-piccole come Calabria e Abruzzo.

La Campania e la Sicilia, pur popolose e capaci di esprimere pluralismo politico, sarebbero colpite da tagli comunque superiori al 36,5%: per avere un’idea, la Campania perderà ben 33 parlamentari. Una perdita netta di sovranità che, peraltro, colpisce un po’ più il Sud rispetto al Nord anche sul piano strettamente numerico. Infine, proporre una riduzione del numero dei parlamentari senza alcun collegamento con un’idea sottostante di rappresentanza politica o di sistema politico (per non dire di Paese) comporterà la necessità di preferire o rendere necessarie formule con circoscrizioni molto ampie e, probabilmente, sistemi proporzionali, o con preferenza o con lista bloccata. Questi sistemi, senza condizioni di contorno, in un contesto come il Mezzogiorno, sono destinati a produrre evidenti danni. La necessità di coprire aree territoriali più grandi comporterà un maggior dispendio economico, i costi della campagne elettorali aumenteranno e più forte sarà la tendenza a cercare l’appoggio di reti territoriali.

Come ci ricorda Brunetta, al Sud non c’è quella presenza diffusa di corpi intermedi che strutturino una forte società civile, quindi il rischio è che aumenti il lobbismo più deteriore e, nei peggiori casi, la criminalità organizzata che potrebbe avere gioco facile a imporsi in quanto… organizzata a orientare il voto. Questo varrebbe soprattutto per il personale trasformistico, prevalentemente di centro (in realtà privo di qualunque cultura politica), che alla fine non risponde veramente a nessuno e ha prodotto enormi danni al Mezzogiorno, come documentato da Marco Esposito, a partire da un atteggiamento assenteista e menefreghista in Parlamento. Nei partiti più strutturati – ammesso che esistano – non andrebbe tanto meglio perchè aumenterebbe il peso delle segreterie o dei giochi correntizi, finora non certo virtuosi laddove l’opinione pubblica, come nel Mezzogiorno, è meno reattiva.