Otto referendum per una giustizia giusta. La notizia, al di là del merito dei quesiti referendari, ha il sapore di una ventata di libertà. Sono ormai circa dieci anni che il paese è oppresso in nome della responsabilità. Non si vota… per senso di responsabilità; non si consente l’accesso ai verbali del Comitato Scientifico relativi alle decisioni sul lockdown, nonostante l’ordine dato dal Tar… per senso di responsabilità; non si affrontano le questioni sollevate dal caso Palamara… per senso di responsabilità; non si mettono sul tappeto le riforme radicali di cui il paese ha bisogno… per senso di responsabilità. Si potrebbe proseguire all’infinito. Il senso di responsabilità è diventato una cappa di piombo, che deve proteggere da ogni sussulto il palazzo e gli intrighi che si consumano al suo interno. E, oggi, il senso di responsabilità dovrebbe indurre a non aprire nemmeno la stagione referendaria.

Per fortuna ci sono i radicali! I quali, per l’ennesima volta, provano a scuotere il paese da quel torpore, in cui le classi dirigenti cercano di tenerlo costantemente immerso. C’è qualcuno che storce il naso perché le firme saranno raccolte con il contributo della Lega. È il solito gioco di non prestare attenzione alla luna, ma al dito che la indica. Come se la portata dei referendum, ove fossero accolti, avesse un significato normativo diverso a seconda di chi li propone. Lo aveva ben teorizzato Marco Pannella, quando aveva rifiutato di collocarsi organicamente in un determinato schieramento, sostenendo la necessità e l’opportunità di trovare di volta in volta i compagni di strada, essendo il vero obiettivo la approvazione delle proposte referendarie e non il mantenimento delle alleanze. Ed è la scelta che ha consentito ai radicali di conservare la loro invidiabile assoluta libertà di azione e, prima ancora, di pensiero.

Certamente fa impressione che la Lega, oggi, si impegni per sostenere dei referendum garantisti, mentre è ancora fresca la memoria dei suoi esponenti, che mostravano il cappio in Parlamento durante Mani Pulite. E, tuttavia, se una evoluzione in senso garantista vi è stata, va apprezzata. Ed ancora più incomprensibile è che storca il naso chi, in nome della conservazione delle poltrone ministeriali, è stato disponibile in questi anni ad affermare tutto e il contrario di tutto, giungendo addirittura a far decadere una riforma, prima voluta e poi completata, del sistema penitenziario per potere con più credibilità sollevare la bandiera giustizialista in sede elettorale.

Questa volta, il senso di responsabilità che avrebbe dovuto impedire l’iniziativa referendaria avrebbe dovuto essere sollecitato dalla circostanza che le riforme sarebbero in corso di elaborazione e ne sarebbe urgente l’approvazione, per poter accedere ai fondi europei, mentre l’iniziativa referendaria costituirebbe un ostacolo. È difficile, tuttavia, comprendere il senso di un tale ragionamento. I referendum, nella storia repubblicana, non hanno mai costituito un ostacolo alla approvazione delle riforme e, anzi, spesso hanno costituito uno stimolo al lavoro del Parlamento. In questo caso, l’opportunità dell’iniziativa referendaria è ancora più evidente. Gli scandali, che stanno travolgendo i residui della credibilità e del prestigio del sistema giustizia, richiederebbero interventi coraggiosi e radicali. Essi, difatti, non riguardano più alcuni singoli, ma il sistema di potere nel suo complesso.

La politica di far finta che si tratti della condotta censurabile di pochi, attuata impedendo a Palamara di citare i testi che avrebbero aiutato a far luce sulla dimensione complessiva del fenomeno, può aver aiutato a far restare a galla l’attuale Csm, ma certamente non ha impedito alla pubblica opinione di cogliere l’ampiezza del fenomeno. Ciò, nonostante che molta parte della stampa e dei partiti politici abbia osservato la consegna di una imbarazzata reticenza sul tema. Reticenza che oggi si traduce nel tentativo di annacquare il più possibile le riforme. Ciò in una duplice direzione: da un lato si cerca di non incrinare quel grumo di potere autoreferenziale che ha consentito al sistema giustizia, negli ultimi trenta anni, di collocarsi al di sopra di tutti gli altri poteri dello Stato; dall’altro, si cerca di soffocare qualsiasi prospettiva garantista, che possa comunque intaccare l’ampiezza dei poteri di quel sistema.

Il perché questo avviene è evidente. Avanzare protetti dai carri armati della giustizia è molto conveniente: così è stato possibile prima far fuori gli altri partiti della Prima Repubblica e, successivamente, neutralizzare Berlusconi. Oggi, la prospettiva è, con lo stesso sistema, quella di far fuori Salvini. Frutti, evidentemente, troppo succosi per rinunciavi. E, tuttavia, si tratta di frutti avvelenati per il paese. Ecco, allora, che i referendum per una giustizia giusta, proprio perché dirompenti rispetto alla situazione che si cerca di preservare, hanno una utilità che addirittura trascende e supera gli specifici contenuti referendari. Innanzitutto, servono a rilegittimare il fatto che il potere appartiene in primo luogo al popolo, che si pronuncia nelle urne. In secondo luogo, smascherano quell’ipocrisia che, in nome della responsabilità, impedisce la modernizzazione del paese e la costruzione di un corretto equilibrio tra i poteri dello stato.

Ora, come sempre, si farà di tutto per boicottare i referendum: giornali e televisioni taceranno, certi partiti e certi intellettuali si esprimeranno in modo sprezzante. Ma la presenza della Lega e la sua capacità di muovere alcuni sentimenti profondi della popolazione renderà rischioso il consueto gioco dell’insabbiamento delle iniziative referendarie. Per di più, la partecipazione alla campagna referendaria non potrà non avere ripercussioni sullo stesso DNA della Lega. Ben vengano, dunque, gli otto referendum. E con questa iniziativa cresce il debito di gratitudine che il paese ha con i Radicali. Protagonisti, ancora una volta, di una iniziativa che non è di potere, ma di conquista di spazi di libertà e di democrazia nell’interesse dell’intera collettività.